Quali sono le cause del rifiuto totale nell’anoressia

A proposito del rifiuto anoressico Domenico Cosenza[1] sostiene che esso diviene nell’anoressia una modalità di godimento che assorbe totalmente il soggetto. È l’elemento su cui si struttura il suo modo di fare, il suo modo di vivere, di mostrarsi e di essere. Il rifiuto cioè non rappresenta un’opposizione invalicabile e non interrogabile, piuttosto il perno su cui si organizza tutta quanta la dimensione anoressica. Il rifiuto quindi assume diverse declinazioni e significati che l’autore, in un’ottica pienamente psicodinamica, identifica così: domanda d’amore rivolta all’Altro, tentativo di svincolarsi, modalità di godimento, difesa dalla pulsione.

         Inoltre G. Polacco Williams ha ipotizzato la presenza della «Sindrome di “vietato l’accesso”» specificamente in quei soggetti il cui rifiuto di “prendere da un altro” avviene come difesa dal terrore di essere sopraffatti e azzerati dall’Altro. In particolare questa studiosa considera tale sistema difensivo come un’operazione di chiusura del soggetto verso tutto ciò che implica la relazione con qualcuno:

un’ estesa sintomatologia con caratteristiche di “vietato l’accesso” può rappresentare un sistema difensivo sviluppato da un bambino che (a volte nella prima infanzia) si è sentito invaso da proiezioni. Probabilmente queste proiezioni sono state da lui vissute come corpi estranei persecutori. La sindrome di “vietato l’accesso” svolge la funzione difensiva di bloccare l’ingresso a ogni input sentito potenzialmente come intrusivo e persecutorio.[2] 

Per comprendere questa formulazione teorica bisogna tener presente che prima di essere adolescenti e poi adulti si è stati bambini. Per quanto ciò possa apparire ovvio e assodato, è una costatazione di fondamentale importanza se si vuole comprendere la paura e la preoccupazione delle persone che soffrono di anoressia e bulimia di essere fagocitati da coloro di cui hanno bisogno.

Le risorse interne che una persona dispone dipendono, infatti, da ciò che ha ereditato dal proprio patrimonio genetico e da tutto ciò che ha acquisito durante l’infanzia e poi durante l’adolescenza dall’ambiente sociale, culturale e familiare. Se queste risorse sono forti e solide la persona ha maggiori probabilità di affrontare gli ostacoli della vita senza troppe difficoltà, facendo sempre riferimento a basi stabili e sicure. Al contrario, chi non può appoggiarsi su risorse di questa portata può accusare molto di più i mali della vita.

Abbiamo visto come molti studi hanno messo in luce il rapporto tra l’origine e la genesi del disturbo del comportamento alimentare e il ruolo della famiglia. In particolare da tempo la letteratura scientifica ha evidenziato l’origine delle difficoltà alimentari all’interno della relazione madre-bambino. Questa prospettiva si è evoluta a partire dagli studi di Spitz che, attraverso la ricerca sul campo e l’osservazione indiretta, filmò alcune madri nell’atto di accudire i propri bambini. Egli rivelò come ad una carenza precoce di cure materne si associava un disequilibrio dei ritmi biologici, in particolare per ciò che riguardava il sonno e l’alimentazione, e uno scarso accrescimento del bambino.

L’interesse e le cure dell’adulto sono dunque indispensabili per accompagnare il bambino nella sua crescita fisica e per suscitare e sostenere in lui lo slancio mentale, che è presente sin dalla nascita ma si può modificare e scomparire se non è favorito e appoggiato. “[…] vorrei sottolineare che mentre un bambino fisicamente sano nasce con uno stomaco e con tutto l’apparato necessario per digerire il cibo, non esiste qualcosa di analogo per lo sviluppo mentale.”[3]

La personalità si forma nel rapporto dialettico con l’Altro.

Come scrisse il filosofo greco Aristotele (IV sec. a.C.) nella sua Politica “l’uomo è un animale sociale”, tende per sua natura a vivere in società, cioè in rapporto costante con l’Altro. Ciascuno si costruisce un’immagine di sé in connessione con l’immagine che gli rimanda l’ambiente in cui vive. Se l’adulto sostiene il bambino nei momenti di panico e di angoscia, quest’ultimo saprà sviluppare un’immagine buona di sé, la capacità di tollerare il dolore psichico e di divenire progressivamente più autonomo. Al contrario se il bambino soffre di carenze relazionali affettuose e affidabili e non interiorizza un legame rassicurante con la figura che si prende cura di lui, sarà più vulnerabile, più insicuro, e fortemente dipendente da quello stesso adulto, indifferente o insensibile.

Il punto di svincolo è che, se durante l’infanzia il bambino dipende totalmente dall’Altro, crescendo cerca di diventare sempre più autonomo ed essere se stesso: cerca cioè di rafforzare la propria identità. Questo non vuol dire rifiutare l’Altro ma continuare a trarre benefici dal rapporto con quello per modellare e definire la propria personalità. Il problema si presenta nel momento in cui il soggetto cerca di adempiere allo stesso fine ripiegando però su se stesso, chiudendosi al rapporto con l’Altro, non permettendo a nessuno di avvicinarsi e nei casi più gravi, come afferma Polacco Williams, provando addirittura paura di essere “toccato sulla pelle”.[4] La persona sbarra l’accesso all’Altro, tende alla fuga sia fisica che dalle relazioni, poiché ha paura si essere sopraffatto da tutto ciò che ne potrebbe conseguire. Ciò nasconde tutta quanta la fragilità del soggetto e la debolezza della sua struttura interiore, intorno alle quali egli cerca di organizzare un mondo di sopravvivenza.

Le considerazioni di Polacco Williams derivano dal lavoro che ella fece con il grave caso di una ragazza anoressica precocemente esposta a carenze affettive.

La madre della ragazza, alcolista, era morta quando lei era molto piccola e i genitori erano divorziati. La ragazza da allora aveva vissuto con il padre e se ne andò di casa il giorno del suo sedicesimo compleanno. Il sistema “vietato l’accesso” di questa ragazza era così esteso che aveva persino paura di essere toccata sulla pelle, rendendo anche difficili le cure mediche.[5] Il caso, che si concluse positivamente anche a seguito di un lungo lavoro e di una doppia presa in carico psicoterapeutica, mostra come il sistema impenetrabile di molti soggetti con un disturbo del comportamento alimentare è spesso solo l’indice di un profondo bisogno di proteggere l’integrità interiore che è stata minacciata. La «sindrome di “vietato l’accesso”» rappresenta quindi una difesa dalla sofferenza e dal dolore che i soggetti anoressici e bulimici traducono nel rifiuto del cibo.

[1] COSENZA D., Il muro dell’anoressia, Roma, Astrolabio, 2008, p.140-158.

[2] POLACCO WILLIAMS G., Paesaggi interni e corpi estranei. Disordini alimentari e altre patologie, “Tavistock Studi Clinici”, Milano, Bruno Mondadori, 1999, p.106.

[3] POLACCO WILLIAMS G., op. cit., p. 16.

[4] POLACCO WILLIAMS G., op. cit., p. 100-107.

[5] POLACCO WILLIAMS G., ibidem.

di Federica Maria D’Autilia

consulenzapsicologica

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