Come comunicare con il paziente

Autenticità e congruenza: E’ questa una delle caratteristiche richieste ad un counselor davvero difficile da ottenere. Il counselor deve tendere ad essere se stesso in modo genuino, sincero nella relazione. E’ applicabile questo principio
anche nelle professioni sanitarie? E soprattutto serve davvero al cliente e al professionista? In senso puramente filosofico e generale penso di si e molti autori ne parlano, ma nella pratica è sicuramente molto difficile per vari motivi.

In ambito sanitario i professionisti, tutti, sono visti dagli utenti come i detentori del sapere e del potere ed è per questo che diamo loro fiducia e depositiamo la nostra vita nelle loro mani. Certo nella società ideale e immaginaria questo non dovrebbe essere del tutto vero ma è necessario lavorare con ciò che c’è. Quello che spesso si incontra è un paziente che vuole un medico sempre in forma, un infermiere a sua disposizione un sistema che non abbia lacune.

In fondo, da un punto di vista differente da quello professionale, se mi rivolgo al dottore è perché sto male, non ho voglia di sentire che anche l’altro sta male o che ci sono magagne organizzative, anzi per lo più lo investo del potere di guarirmi, e anche del dovere, ovviamente. Ogni “caduta” del professionista mi fa sentire insicuro e mi infastidisce. Inoltre non è trascurabile che molti pazienti non vogliono sapere nulla della loro situazione o che i loro parenti non vogliono che
sappiano nulla dando non poco filo da torcere alla congruenza. (Quante arrampicate sugli specchi!)

Ma come sappiamo il non verbale non mente.

Il paziente si accorge che non gli viene detto tutto, che c’è qualcosa che non va, talvolta si innervosisce e perde fiducia, si, come diciamo noi, incattivisce.
E il professionista? Il professionista si chiude per non fare trasparire ma sa e porta dentro. Il professionista sparisce per non farsi “scoprire” e a volte non è neppure consapevole che sta scappando.
Farlo una, due, tre volte ma poi quando le volte che ciò accade non sono più numerabili, lo stress è elevatissimo, la compressione di ciò che si prova e si conosce dentro di se è a volte insostenibile e ogni professionista, null’altro che
uomo sapiens, fa quello che può. Si difende e cronicizza i suoi meccanismi di difesa usandoli anche quando non sono necessari. Ovviamente in questa sede debbo generalizzare e semplificare ma le sfaccettature sono mille.

Lo scorso anno ho partecipato ad un corso sulla terapia del dolore e le cure palliative al malato a fine vita ed ho conosciuto medici e infermieri che in tal senso mi hanno insegnato molto. La prima cosa è che già un buon inizio di
autenticità e congruenza, accettare che si hanno dei limiti fisici e psico-emotivi e che con molta chiarezza bisogna dire alle persone in carico che non si è sempre disponibili, ventiquattro ore su ventiquattro, ma che si hanno degli orari
così come si hanno tempi di ferie, e tempi di pause. Dire alla persona, condividere! Due parole chiave che a me non erano state proprio dette! Altra cosa molto profonda a mio avviso è capire cosa la persona vuole.

Se la persona vuole sapere o no perché, come sostengono quei medici e infermieri che si occupano di malati a fine vita, c’è anche il diritto a non sapere. E se la persona non vuole sapere il non dire non genera più incongruenza e non limita più l‟autenticità. E’ un accordo. Vi giuro che quando mi sono iscritta a questo corso non avrei mai immaginato di trovare professionisti sanitari tanto sereni e così poco arrabbiati con il mondo e con l‟organizzazione.

di Paola Di Donato

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