Disturbi alimentari (psicoanalisi): spiegazione e riassunto

Questo articolo sui disturbi alimentari (psicoanalisi) secondo la psicoanalisi è di Alice Maggini.

Osservando l’interazione tra la cultura e le forme psicopatologiche, si osserva uno stretto rapporto tra le due (Deveroux, 1978): nello specifico, l’analisi delle sindromi alimentari sembra presentare il difficile rapporto tra l’essere e l’avere, ascrivibile nella  logica moderna del consumismo operante all’interno dell’attuale economia di mercato (Recalcati, 1997).

Si assiste negli ultimi decenni ad una esponenziale accelerazione della logica delle merci assimilata al capitalismo, dove il suo elemento caratterizzante è “l’illusione che moltiplicando l’avere si raggiunga l’essere”.

Un’ illusione alimentata dal circuito speculativo dell’accrescimento del capitale con la stimolazione del desiderio dell’oggetto-merce, frustrazione del desiderio oggetto-merce, rilancio su un nuovo oggetto-merce.

Accanto all’oggetto-merce, che acquista sempre più potere illusorio, compare una sempre maggiore evanescenza del soggetto occidentale e dei suoi stessi processi costitutivi, contribuendo così alla conseguente trasformazione delle forme di sofferenza (Pezzella, 1996) .

Si è assistito,  adottando l’ottica di Heinz Kohut, ad una trasformazione da un “Uomo Colpevole” a un “Uomo Tragico”. I

l primo è l’uomo freudiano: caratterizzato dal conflitto tra desiderio e divieto, è un soggetto consistente che si relaziona al mondo seguendo il principio di realtà che limita il principio di piacere.

Il secondo è l’uomo contemporaneo: alla prese con il significato della propria esistenza e del riconoscimento del proprio valore, è impegnato nella costruzione dello stesso Sé.

L’epoca contemporanea è spesso definita attraverso il prefisso post, (post-moderna, post-capitalista, post-femminista), ciò identifica l’attualità come una deflagrazione delle precedenti forme culturali, come un dopo che fatica a costruire una propria identità.

In questo contesto la condizione anoressica potrebbe costituirsi come atto estremo per ritrovare il senso della propria esistenza e per riconsolidare il proprio Se ricostituendo il senso della propria esistenza (Cardamone, etc. 1999).

Ad aggravare questo senso di estraniamento nell’occidente contemporaneo si assiste inoltre a una perdita delle emozioni negative che vengono rinnegate, l’angoscia di morte e separazione non viene contemplata ma allontanata come se non esistesse. La negazione di queste emozioni si evince ad esempio nella rincorsa all’eterna giovinezza dove la chirurgia estetica sembra voler cancellare la vecchiaia e con lei l’inevitabile decadimento. Dalla premura con cui le figure genitoriali allontano sempre di più l’incontro del figlio con il male, cancellato anche dalle fiabe avvolgendo la prole nel cosiddetto “think positivo”, la possiamo osservare anche nelle forme di accanimento terapeutico che sembrano voler allontanare la morte anche a discapito della dignità della vita e nelle tecnologie che hanno definitivamente annientato ogni forma di distanza.

Tutto ciò va ad aggravare il senso di estraniamento caratteristico dell’uomo moderno, che diviene ancora più spaesato quando entra in contatto con la porzione malvagia del suo Sè, il soggetto, non preparato dal suo ambiente a questo incontro, ripudierà questa porzione del suo essere.

Un’ interessante ipotesi emersa da recenti studi vede nei sintomi psicopatologici la riproposizione di tutti quei elementi mentali non assimilati all’interno di un gruppo sociale o famigliare; ed ecco che le attuali forme di disagio si prestano a questa ulteriore funzione, l’angoscia di morte e separazione non integrate o affettivizzate nella  relazione verrebbero drammatizzate nei disagi  anoressici o auto lesivi (Comelli, 2009). Le strutture difensive della mente (che hanno già un intrinseca predisposizione a distorcere il proprio apparato percettivo per non avere il contatto con il dolore o con le altre emozioni non tollerabili) si alleano molto bene al mito post moderno che esclude determinate aree, il rischio di questa intesa è di avviare severe distorsioni psicopatologiche.

Negli studi dei rapporti fra psicopatologia e cultura si evince infatti, che nell’occidente contemporaneo l’angoscia di morte e separatezza, non tollerate ne affrontate e integrate nella relazione familiare, ricompaiono rappresentate nel corpo delle anoressiche e nella possibile morte di queste pazienti, come un ritorno tragico e puntuale di quei elementi non compresi o adeguatamente gestiti (Coppo, 2003).

Famiglia e società, non offrendo nessun contenitore dove poter simbolizzare questi temi dolorosi, obbligano il corpo a divenire l’unico veicolo portavoce  dei contenuti intensi e dolorosi non adeguatamente gestiti da altri (Comelli, 2015). La teoria contenitore/contenuto[1] introdotta da Bion e ripresa da Kaes, illustra chiaramente come il contenitore influenza sensibilmente il funzionamento psichico e pone dei limiti sui contenuti esperibili. In passato, contenuti di colpa e di male, erano adeguatamente gestiti nelle tematiche religiose tramite il peccato e l’espiazione.

In epoca contemporanea, con l’impoverimento della religione, si assiste anche al mutamento delle patologie: il soggetto moderno, non sviluppa più una nevrosi ossessiva con tematiche religiose, ma sembra sviluppare malattie che rappresentano questo deficit di contenitori e che al contempo richiamano residui ancestrali di una religione perduta.

Il digiuno in quanto sacrificio (sacum facere),va in un certo senso a ricostituire il sacro nel contemporaneo, ma è un sacro ambiguo, senza nome e per questo perturbante, ne discendono quindi comportamenti promiscui e oscillanti tra il sacro e il profano, fra attrazione e rifiuto, pratiche ascetiche, che tendono a confondersi con i dettami richiesti dalla ideologia occidentale per la realizzazione dei canoni di bellezza (Cardamone, etc., 1999).

L’astensione al cibo fino alla morte, permette così l’espiazione del peccato in un epoca dove il peccato è stato rinnegato.

Il paradosso dell’epoca moderna è che la negazione della distruzione e del dolore, è iniziata proprio dopo la seconda guerra mondiale, una della guerre più sanguinose, con i tragicamente noti campi di sterminio e terminata con lo sgancio della bomba atomica, due fatti che hanno determinato l’annientamento umano più atroce della storia. In risposta a tutto ciò, non si è lasciato spazio alla rielaborazione e alla responsabilizzazione di quanto accaduto, si è invece risposto con una completa negazione, con la corsa al consumismo che sfama prima di sentire il morso della fame, il tutto positivo, essere sempre connessi e non separati da nulla. In questo scenario troviamo i disturbi alimentari come possibile evoluzione di una patologia sociale, il corpo si fa portavoce di un messaggio criptato. Grazie a questo processo di simbolizzazione, la carne diviene luogo elettivo di una drammatizzazione dell’esperienza, una sorta di “teatro del dolore” dove il sintomo, attraverso le sue componenti rappresentative, si offre all’interpretazione di ciò che non può essere altrimenti comunicato (Taliani, Vacchiano, 2006).

Si tratta di un argomento già ravvisabile nella “Teoria del sintomo come rappresentazione simbolica” introdotta dal padre fondatore della Psicoanalisi Sigmund Freud, sebbene, solo recentemente sia stata impostata una riflessione più consapevole dell’influenza che la cultura ha in tale processo. In riferimento ai disturbi alimentari, è come se le anoressiche tentassero di utilizzare il proprio corpo scheletrico per poter comunicare con il loro ambiente la propria sofferenza, il sintomo è allora denso di senso non perché manifestazione di una certa patologia, ma poiché veicolante di certo messaggio iscritto dal soggetto.

Il sintomo può cosi essere considerato una sorta di “gioco linguistico” tra il sofferente e  l’insieme di individui contigui che condividendo lo stesso habitat possono avere i mezzi per un’accurata interpretazione. Può essere letto come il tentativo di articolare un vero e proprio linguaggio della sofferenza, la cui rilevanza investe il complesso delle vicissitudini esistenziali del singolo all’interno del mondo relazionale che abita, è un lessico che si avvale della narrazione corporea per raccontare del proprio stato psicofisico attraverso formule comuni e condivise (Taliani, Vacchiano, 2006).

Ciò non implica che queste formule siano consapevoli e immediatamente comprensibili, si racconta attraverso il corpo quando non si conoscono le parole per poter narrare in altro modo, così fanno i bambini e così fanno gli immigrati.  Svariati sono i modi con cui i cittadini immigrati esprimano la loro sofferenza, attraverso un linguaggio somatico che evoca figure altamente espressive mettono in forma il dolore psichico e lo rendono visibile: “ Corpi che formicolano, arti che tremano, pelle che pizzica, orecchie che ronzano, piedi che bruciano, ventri che si gonfiano, respiri faticosi che fermano il cuore”; si tratta di manifestazioni complesse e spesso sfuggenti e incomprensibili per la medicina occidentale che considera il sintomo come segno inconfondibile di una malattia, e non come estremo tentativo di comunicare, difficile da interpretare per il curante di diverso retaggio culturale (Talani, Vacchiano, 2006). Che il corpo sia luogo delle emozioni incarnate e il migliore veicolo per esprimere l’esperienza dolorosa, emerge anche qualora si osservano gli spazi linguistici familiari, in tali contesti si ritrovano metafore condivise per rappresentare a se e agli altri il proprio malessere e anche qui il corpo ne fa da padrone “un peso nello stomaco, avere il cuore debole, sentire un cerchio alla testa” ( Beneduce, 1995).

 

[1] Il rapporto contenitore contenuto è uno dei assi concettuali emergenti del pensiero di Bion. Una delle funzioni revier materne consiste nel fornire al bambino un adeguato contenitore in cui bonificare i contenuti non ancora pensabili o intollerabili e restituirli in forma alpha. Il bambino in un primo momento beneficerà di questi contenuti bonificati e potrà utilizzarli, crescendo e dopo ripetute interazioni potrà far propria la funzione alpha.

 

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