La storia del sintomo in psicologia e filosofia

Articolo di Santina Marino

Distinguere la materia oggettivabile, dalla realtà non materiale, accessibile a modi di conoscenza non empirica, è un’operazione che ha un’antica tradizione. Già nella filosofia Greca classica riscontriamo la separazione tra anima e corpo, dove per anima si intende il principio di vita, mentre per corpo si intende la materia inanimata.

Platone è il primo sostenitore di una posizione dualistica, dove anima e corpo sono due sostanze distinte, irriducibili l’una all’altra e indipendenti. In particolare l’anima è immortale e non solo continua a vivere dopo la morte del corpo, ma è esistita anche prima di esso, al quale è stata incatenata. L’anima è il centro della vita intellettiva ed etica dell’uomo, è la sua essenza ed è concepita come immateriale.

Secondo Platone la realtà si divide in due parti. Una parte è rappresentata dal mondo sensibile, in cui tutto scorre e di cui possiamo ottenere una conoscenza approssimativa attraverso i sensi, l’altra invece è costituita dal mondo delle idee, eterne e immutabili, che possiamo conoscere usando la ragione.

Allo stesso modo anche l’uomo è formato da due parti, abbiamo un corpo legato al mondo sensibile che scorre come ogni cosa di questo mondo; ma abbiamo anche un’anima immortale che può contemplare il mondo delle idee.

L’anima conosce le idee e seguendo la teoria del “il simile conosce il simile”, come le idee sono invisibili, anche l’anima lo è, al contrario del corpo che è visibile e immerso nel mondo sensibile. Inoltre per essere veramente libera l’anima deve svincolarsi dalla prigionia del corpo che viene sentito come incompleto e insignificante.

L’anima è principio di vita per sé stessa e per il corpo, mentre quest’ultimo senza l’anima sarebbe inanimato. L’anima è il soggetto della conoscenza e conosce veramente quando interrompe i contatti con il corpo, ossia dopo la morte.

Il corpo dunque è solo sorgente d’illusione e d’orrore, a causa dei sensi, perciò l’anima deve purificarsi dal corpo mediante la conoscenza e aspirare a separarsi definitivamente da esso dopo la morte.

Gli anni che separano Platone da Aristotele sono relativamente pochi, eppure il tempo in cui si trova a vivere Aristotele è nettamente diverso da quello del suo maestro.

Aristotele si allontanò dal metodo dialogico, elaborando una posizione filosofica e un metodo nuovo, quello sistematico. Aristotele, al contrario di Platone, ritiene che l’anima non possa essere separata dal corpo, identificando l’anima con capacità specifiche del corpo e cioè con quelle capacità che consentono all’organismo di vivere.

In questo senso, tra anima e corpo, non ci può essere distinzione, se non a livello filosofico.

Aristotele divide i corpi terrestri in due categorie: privi di vita e viventi; interessandosi principalmente dei corpi viventi in quanto più complessi. Come molti autori della filosofia classica, egli interpreta la natura attraverso un modello 1biomorfico e spiega il non vivente per mezzo di concetti maturati grazie all’analisi dei viventi. Gli esseri viventi e non viventi sono costituiti dagli stessi elementi, i primi però hanno una forma diversa che è l’anima.

Ma che cos’è l’anima?

Aristotele lo spiega nel De Anima IV secolo a.C., un insieme di appunti presi dal filosofo stesso che poi avrebbe sviluppato nella sua scuola; introducendo le sue opere di biologia.

Quest’opera tratta dell’anima, e non si sofferma tanto sulla sua definizione ma ne descrive il suo funzionamento. Definisce l’anima come: «La forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza» o come «l’atto primo di un corpo naturale dotato di organi», dove “atto primo” indica il principio di ogni attività vivente. A differenza di Platone l’anima non è più un essere indipendente dal corpo ed imprigionato in esso come in una prigione o in una tomba.

L’anima è per Aristotele la struttura stessa del corpo e dirige il funzionamento dei suoi organi per mantenerlo in vita. Quando l’anima lascia il corpo, questo diventa un cadavere senza vita. Per l’autore l’anima è unitaria, ed è ciò che anima un essere vivente, cioè è “entelechìa” di un corpo che ha la vita in potenza; (l’entelechìa è la tensione interiore che ha una sostanza, nello specifico un organismo, a realizzare sé stesso passando dalla potenza all’atto). Nei termini della metafisica aristotelica, l’anima è atto, dove la funzione del corpo è quella di vivere e di pensare, l’atto di questa funzione è l’anima.

Quindi il pensiero aristotelico vede il dualismo anima e corpo non come entità separate, ma afferma che ad ogni funzione psichica corrisponde un processo fisiologico; l’anima è un’abilità fisica.

Inoltre, essa è definita dalle sue funzioni: nutrizione, percezione, pensiero, movimento; e ha tre livelli funzionali possibili: vegetativo, sensitivo e intellettivo. Le piante hanno solo il primo, gli animali il primo e il secondo, gli uomini tutti e tre.

L’intelletto è la capacità di giudicare le immagini provenienti dai sensi e dall’immaginazione come vere o false, buone o cattive; l’intelletto le approva o le disapprova, le desidera o le fugge. Nello scritto sulla “Generazione degli animali”,

Aristotele sostiene che l’intelletto viene all’uomo dall’esterno, e cioè che è divino.

La natura e la posizione dell’intelletto di Aristotele saranno oggetto di un corposo dibattito nella Storia della filosofia. Un’epoca di ulteriore dibattito fu il Medioevo che si interessò del rapporto tra anima e corpo; esso viene dibattuto tra religione e filosofia nel tentativo di costruire una filosofia cristiana che conciliasse l’idea dell’immortalità dell’anima e della mortalitàà del corpo, con quella dell’uomo inteso come totalità di anima e corpo.

Il pensiero medievale eredita dall’antichità la partizione dell’essere umano in due elementi costitutivi principali; il primo è concepito come una natura spirituale intelligente, che è l’anima, destinata al governo del corpo, di natura materiale.

Nell’Alto Medioevo, si ha una lettura del corpo, dagli autori di ambiente monastico, come elemento
oscuro, che appesantisce o imprigiona l’anima umana nel mondo terreno, conducendola verso il peccato.

Il dominio dell’anima sul corpo, dello spirituale sul materiale e della volontà sull’istintuale, è il fine ultimo del buon cristiano, che prima ancora dei segni della bontà divina, sembra portare in sé le tracce della colpa originaria, che ne fa un discendente di Adamo.

L’accentuare questa concezione pessimistica della materia e del corporeo è strettamente collegata alla nozione cristiana del peccato originale, che vede nell’essere umano gli elementi di imperfettibilità e corruttibilità.

Fuori dai monasteri, ma all’interno del medesimo orizzonte culturale del XII secolo, periodo ricco di fermenti e di nuove sperimentazioni religiose e sociali, si sviluppa un movimento di vaste dimensioni, quello dei Catari, condannato dalla Chiesa come eretico ed oggetto di una dura repressione all’inizio del secolo successivo, che sostiene un dualismo estremo tra anima e corpo.

I Catari predicavano un rinnovamento morale fondato su una netta opposizione tra bene e male, spirito e materia. La predicazione dei frati domenicani, francescani e i processi condotti dai vescovi non furono sufficienti ad arrestare l’eresia, che in Francia venne repressa con una crociata dal 1208 al 1226.

Anche la Chiesa divenne intollerante, il Papa e l’imperatore stabilirono pene più severe contro i Catari, compresa la pena di morte. Il papa inoltre nominò, nel 1231 in Germania e subito dopo in Italia e Francia, alcuni giudici speciali che dipendevano direttamente da lui, gli inquisitori. I processi degli inquisitori nella seconda metà del Duecento, pur con poche sentenze capitali, limitarono molto la diffusione del catarismo, che scomparve all’inizio del XIV secolo. Nei secoli XIV e XV la repressione dell’eresia si burocratizzò; nacquero i questionari fissi e furono scritti diversi manuali.

La competenza del tribunale si estese a nuovi campi: abuso di alcuni sacramenti, bestemmia ereticale, bigamia, mancato rispetto dell’ufficio inquisitoriale e soprattutto magia e stregoneria. In tale epoca l’interpretazione predominante della malattia mentale resta l’essere posseduti da spiriti malvagi o dal diavolo e quindi dall’avere una morale debole ed essere sottoposti al castigo divino. In questo panorama filosofico la malattia mentale non viene riconosciuta come un disturbo diagnosticabile ma come un male che affligge lo spirito, proprio per questo la Chiesa durante l’inquisizione mise in atto i processi alle streghe.

Le donne affette da un disturbo mentale venivano frequentemente accusate di stregoneria e condotte sul rogo. L’isteria nel Medioevo iniziò a essere trattata come manifestazione demoniaca, il risultato dell’alleanza della persona con le forze maligne. Le isteriche divennero l’emblema stesso della stregoneria e come tale iniziarono a essere perseguitate e accusate delle peggiori malvagità e spesso vittime della furia popolare.

A seguito delle torture più crudeli spesso arrivavano ad ammettere rapporti con il diavolo o patti segreti per diffondere epidemie, morte e carestie. Di conseguenza si manifestò la cosiddetta “isteria di massa”, un fenomeno che riguarda il manifestarsi degli stessi sintomi isterici in più di una persona.

Uno degli esempi più noti di isteria di massa è quello che si è verificato nella cittadina di Salem, New England, passando alla storia come la caccia alle streghe più spietata di sempre. Andiamo con ordine e caliamoci nel processo più sanguinoso della storia.

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