Fotografia e psicoterapia – curarsi con le foto

di Lorena Rigoli

La fotografia, alle origini denominata “dagherrotipia” dal nome del suo inventore Louise Jacque Mondè Daguerre, è nata nel XIX secolo. Con la nascita della fotografia l’uomo poteva conservare delle immagini senza doverle più produrre manualmente. Sin dalla sue origini, una fotografia non si limita ad essere una semplice raccolta d’informazioni in immagini ma permette d’immortalare il punto di vista di colui che osserva e quindi di chi scatta. Il primo ad applicare la fotografia alla salute mentale fu Hugh Diamond fotografo e psichiatra nel manicomio del Surrey County Lunatic Asylum dal 1848 al 1858. Egli fotografò i pazienti del manicomio, utilizzando l’immagine come mezzo diagnostico per l’identificazione dei diversi tipi di malattia mentale, e scoprì che quando le foto venivano mostrate ai paziente avevano un effetto terapeutico positivo. Osservando le loro foto, i pazienti divenivano consapevoli della loro identità fisica e prestavano maggiore attenzione al loro aspetto poiché si resero conto che ogni qualvolta guardavano una foto in cui stavano bene la loro autostima aumentava.

Dopo l’illuminante lavoro di Diamond, si riparlò di fotografia all’interno della terapia nel 1975, anno in cui Judy Weiser, psicologa e arte-terapista, scrisse il primo articolo[1] nel quale utilizzò il termine “Fototerapia”, ossia l’impiego della foto in terapia come strumento non verbale per favorire la narrazione di sé e della storia del paziente. Il primo convegno internazionale di Fototerapia si svolse nel 1979 negli Stati Uniti e nel 1982 J. Weiser istituì il Photo Teraphy Centre a Vancouver in Canada come archivio e sede dei corsi sulle tecniche fotografiche in psicoterapia. J. Weiser definisce la Fototerapia come una tecnica di counseling interattiva che si serve delle interazioni dei pazienti nei confronti delle foto personali di famiglia e nello stesso tempo di foto fatte da altri o dai pazienti stessi durante la terapia, al fine di aiutarli a ritrovare la memoria e i sentimenti nascosti.

Ma cosa può esserci di terapeutico nella fotografia? Certamente, la fotografia consente all’uomo di misurarsi con la realtà percepibile e in maniera completamente nuova. Guardare una fotografia dal punto di vista percettivo significa vederla come una Gestalt fenomenica complessa ricca di figure e sfondi che possono evocare nell’osservatore infinite prospettive di significato. Nel momento in cui guardiamo una foto che ci appartiene cerchiamo di collegare l’immagine al vissuto. Guardarci, riguardarci, guardare le persone ancora presenti nella nostra vita e quelle che non lo sono più, permette di entrare in un mondo “altro” fatto di rappresentazioni, emozioni, sentimenti vissuti, che spesso non si trovano neppure nelle immagini che stavamo guardando. Vedere se stessi è, quindi, un’esperienza intensa di consapevolezza che permette di far entrare il nuovo in un’immagine consolidata di sé e della propria storia personale. In una fotografia il senso del ri-vedersi ingloba al suo interno un “lì e allora” carico di ricordi, evocazioni ed emozioni sedimentate. Infinite tracce di quello che si è stati e di quello che sono state le persone e le cose presenti nell’immagine, le quali ritagliano, ma non isolano, un campo dell’esistenza personale indefinito ma comunque presente.[2]

La possibilità di ri-vedere se stessi è ampliata, poi, dall’atto percettivo iniziale: il guardare. Guardare significa riposizionarsi nell’ambiente, lo sguardo si adatta alla situazione ambientale mediante assestamenti posturali, cognitivi ed emotivi. Guardare una propria fotografia permette di ri-vedersi e ritrovarsi nei ricordi e nei vissuti evocati dall’immagine. Il lavoro con la foto offre una possibilità di dialogo tra l’essere stato e l’essere nel presente, quel presente che permette al paziente di riprendere in considerazione cose diverse da quelle conosciute. È come se il paziente avesse una seconda possibilità relativa a scelte passate, come se nell’hic et nunc del lavoro terapeutico la voglia di cambiamento della persona permettesse di assumere aspetti e valori differenti in relazione a ciò che sta osservando.

È sicuramente comune alla maggior parte delle persone l’ottica con la quale si è posto il semiologo francese Roland Barthes di fronte alla fotografia. Barthes scriveva: Osservai che una foto può essere l’oggetto di tre pratiche (o tre emozioni, o tre intenzioni): fare, subire, guardare. L’operator è il Fotografo. Lo Spectator, siamo tutti noi che compulsiamo, nei giornali, nei libri, negli album, negli archivi, delle collezioni di fotografie. E colui o ciò che è fotografato, è il bersaglio, il referente, sorta di piccolo simulacro, di eidòlon emesso dall’oggetto, che io chiamerei volentieri lo Spectrum della Fotografia, dato che attraverso la sua radice questa parola mantiene un rapporto con lo “spettacolo” aggiungendovi quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto.[3] Avendo a che fare con il reale, ogni fotografia attiva nello Spectator un immaginario personale grandioso, caratterizzato da percezione ed emotività.Tradizionalmente la protagonista all’interno del setting terapeutico è la comunicazione verbale, ma l’utilizzo della fotografia in questo contesto permette di lavorare in maniera diversa dando senso al contenuto narrativo soprattutto grazie al potere espressivo e al linguaggio specifico dotato di un proprio codice che la fotografia possiede.

Dunque in ambito terapeutico possiamo utilizzare la fotografia come metafora del modo che il paziente ha di percepire il mondo e più nello specifico del suo modo di relazionarsi e di essere. Ciò che interessa al terapeuta riguarda quello che la fotografia evoca nel paziente così da permettergli di entrare nel suo mondo razionale, rilevando le possibili incongruenze del suo racconto. Il paziente porta in terapia delle foto, scegliendo delle immagini diverse di se stesso e di altri con cui poter lavorare e relazionarsi, dando senso al materiale scelto. Una volta disposte le fotografie, inizia tra paziente e terapeuta un processo di ricostruzione di significato attraverso una serie di domande che approfondiscono il motivo per il quale il paziente ha deciso di disporre le fotografie in quella determinata posizione e chiariscono ciò che le immagini evocano il lui. Lo scatto, in fondo, è un momento, ma intorno a quel momento sicuramente c’è stato un evento, un accadimento, un processo relazionale. Una modalità di lavoro può essere quella di andare a ricostruire il movimento che non c’è più nella foto, quello precedente e quello successivo l’istantanea.[4] Si ritiene fondamentale utilizzare le potenzialità di attivazione empatica della fotografia in modo da dare parole ad essa al fine di avviare un percorso narrativo che non si limiti alla sola osservazione dell’immagine.

 

 


[1] J. Weiser, Photography as a verb in  “The BC photographer”, 1975, disponibile al link: www.phototherapy-centre.com.

[2] O. Rossi, Lo sguardo e l’azione. Il Video e la Fotografia in Psicoterapia e nel Counseling, Edizioni Universitarie Romane, Roma, 2009, p. 18.

[3] R. Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino, 1980, p. 10.

[4] O. Rossi, op. cit.., p. 63.

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