Perché è difficile uscire da una setta?

Una volta presa coscienza di aver subìto un inganno, nell’adepto si scatenano paure e angosce. Abbandonare il gruppo, infatti, significa perdere tutta la sua realtà. Coloro che fino a quel momento hanno condiviso con lui l’esperienza cultista non gli rivolgeranno più il saluto: “per tutti loro egli diverrà come “trasparente”, un “morto che cammina”.Inoltre, e forse sarà ancora più difficile da accettare, egli non si sentirà rifiutato solo dal gruppo, ma da Dio stesso. “Il processo emotivo che si viene ad instaurare è pressoché uguale a quello della rielaborazione di un lutto: risentimento, rabbia, impotenza, angoscia.”

Va ricordato che nel momento in cui l’indottrinamento è concluso la persona si ritrova completamente “inglobata nell’influenza sociale e psicologicamente coercitiva di una sètta”. Per l’ex-membro il fatto di trovarsi scaraventato in un mondo che fino a quel momento ha imparato a temere ed odiare può scatenare in lui “una serie di difficoltà psicologiche anche di grave natura, come angoscia, depressione, manie compulsive, nevrosi, fobie, schizofrenia.”

Per alcuni il suicidio sembra l’unica soluzione possibile.

Secondo Margaret T. Singer i fattori che impediscono al membro di vedere una via d’uscita sono:

1. Credenza

E’ sicuramente il fattore più potente. È “la colla che tiene legate le persone al gruppo”. Si crede nel gruppo, nei suoi obiettivi, nel leader. Si crede di star realizzando qualcosa. Per molte sètte condividere le credenze del gruppo significa accettare alcuni cambiamenti personali.

2. Rispettabilità e lealtà

La maggior parte delle persone vuole fare del bene, essere altruista e riuscire a fare qualcosa nella vita. Le persone sono tendenzialmente leali e
una volta che si sono impegnate nel fare qualcosa difficilmente si tirano indietro. Quando ci si impegna in un gruppo in cui si crede fermamente “è molto difficile tornare indietro.”

3. La figura dell’autorità

Si tratta di un punto di influenza molto importante. Si è portati a rispettare, oltre che compiacere, l’autorità, il leader che dà risposte. Dubitare del
gruppo significherebbe mancare di rispetto al leader, il quale “ne sa di più”. La logica dell’obbedienza viene rafforzata dalle punizioni per chi viola le regole. Il fatto di dubitare viene ridicolizzato o denigrato e questo creerà un forte senso di disagio. La pressione dei pari convincerà l’adepto che fare domande significa non credere abbastanza, il che lo porterà a smettere di farne.

Inoltre l’essere umano ha la tendenza a fare tutto quanto sia necessario per sopravvivere in un determinato ambiente. “È più facile conformarsi, seguire il flusso, cercare di essere un buon credente e un buon seguace piuttosto che opporre resistenza.”

4. Pressione dei pari e mancanza d’informazione

E’ un fattore critico. Il fatto di non poter parlare apertamente, porta chi lo fa a sentirsi solo, isolato, contaminato, sbagliato. “Direttamente o indirettamente tutti i membri di sètta incoraggiano attivamente gli altri a tenere un certo tipo di comportamento.” Inoltre la sètta censura le informazioni esterne e questo fa si che i membri siano all’oscuro della reale situazione in cui si trovano. E la consapevolezza della propria vittimizzazione è condizione indispensabile per poter chiedere l’aiuto necessario al fine di uscire da detta situazione.

5. Spossatezza e confusione

Aumentano l’incapacità di agire.

6. Separazione dal passato

Il fatto di vivere in un ambiente dove tutti pensano e agiscono allo stesso modo atrofizza la capacità di guardare e comunicare con l’esterno.
Venire a contatto con l’ambiente esterno, con la propria famiglia di origine, diventa un’esperienza così alienante che tutto ciò che si desidererà sarà di tornare di corsa nel gruppo. Infatti, per quanto la vita nella sètta possa essere disagiata, alla fine quella diventa la realtà quotidiana, la propria casa e la propria famiglia.
Inoltre il processo di perdita di autostima si sarà instaurato in maniera così potente che il solo pensiero di andarsene diventerà insopportabile. “Si penserà di non potersene andare perché si è stati profondamente separati dal mondo esterno, e si entrerà in uno stato di paralisi emotiva e psicologica (per non parlare del fatto che molti membri non hanno accesso al denaro e, al lato pratico, non pensano di poter arrivare molto lontano anche se se ne andassero).”

7. Paura

Molto spesso non si lascia una sètta semplicemente per paura. “Molti gruppi danno la caccia ai defezionisti […]. Se i membri cercano di andarsene vengono fermati: se fanno l’errore di dire a qualcuno che stanno pensando di andarsene vengono sospesi dalle attività del gruppo, ostracizzati e puniti. […] Il membro del gruppo sa queste cose e avrà paura di subire lo stesso trattamento. Andarsene non sembra più una strada percorribile.”

8. Senso di colpa

Una volta che si è investito nella vita sèttaria, lasciarla diventa difficile “un po’ perché una parte di sé vuole ancora credere che potrebbe funzionare, un po’ per la vergogna e il senso di colpa.”
La combinazione di tutti questi fattori, che psicologicamente rivestono probabilmente lo stesso peso, fanno si che i membri non riescano a lasciare il gruppo.
I membri che mantengono uno status inferiore all’interno del gruppo “vivono uno stato di conflitto mentale e tormento che può durare anni.” Quelli che invece riescono a salire nella gerarchia vengono istruiti a perpetuare il sistema manipolativo. “Nonostante
siano a conoscenza delle falsità, rimangono per lo status e il potere di cui godono. E rimangono anche perché sono intrappolati dalle stesse influenze che trattengono gli altri, si sentono in colpa e temono ricatti e ritorsioni del gruppo.”

A mio avviso, un discorso a parte meritano gli espulsi dalla sètta. Abbiamo visto come, nei casi più gravi, alcuni membri di sètta sviluppino una vera e propria schizofrenia. È plausibile pensare che certe forme di malattia psichica siano già latenti nel soggetto e che la permanenza all’interno di una sètta non faccia che amplificare la condizione della persona, “tanto che in alcune situazioni è lo stesso leader a obbligare l’adepto ad allontanarsi dal gruppo, non essendo più un soggetto malleabile e, quindi, ben indottrinabile. Lasciare una persona malata di mente non rappresenta una sconfitta per la sètta, bensì una liberazione, poiché, comunque, qualsiasi dettaglio proverà a raccontare sulla vita all’interno del movimento non verrà tenuta in considerazione.”

Inoltre, molto spesso, il leader è ben consapevole fin dove possa spingersi per non cadere nell’illegalità. Il fatto di avere all’interno del gruppo soggetti affetti da malattie psichiche potrebbe valergli un’accusa per il reato di circonvenzione d’incapace e questo metterebbe a rischio l’intera sopravvivenza del gruppo. L’allontanamento di questo tipo di soggetti rimane pertanto l’unica soluzione possibile.

di Francesca Baratto

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