Quando l’attaccamento porta alla dipendenza patologica

Articolo di Mariantonella Santoro

Secondo Bowlby, alcuni disturbi che si verificano nella seconda infanzia, nell’adolescenza e in età adulta, sono ascrivibili ad una particolare relazione distorta con la madre, definita “relazione invertita”. Si tratta di un’inversione dei ruoli madre e figlio in cui la madre si aspetta di essere accudita dal bambino. Tale inversione è dovuta spesso ad un’infanzia materna difficile in cui essa fu privata di quell’amore e di quelle cure che ora richiede dalla relazione col figlio. Tale comportamento produce effetti negativi sul figlio il quale si troverà col dover svolgere un ruolo non suo, sviluppando angoscia, sensi di colpa e fobie che gli impediranno di uscire dal rapporto simbiotico con una madre che si mostra a lui come amorosa e generosa e che vede il bambino nel ruolo apparente di viziato e ingrato. Il bambino cioè sarà spinto a negare i sentimenti di collera verso una madre che in realtà è egocentrica, esigente e ingrata(82).

La dipendenza patologica, consiste in una particolare condizione sindromica caratterizzate dall’uso distorto di una sostanza, di un oggetto o di un comportamento; secondo una prospettiva psicodinamica è possibile rintracciare aspetti comuni nelle diverse forme di dipendenza. In ambito psicoanalitico, si è partiti dalla teoria pulsionale di Freud, che considerava le tossicomanie come retaggio di una fissazione allo stadio orale, per giungere alle recenti formulazioni teoriche che hanno spostato il baricentro del loro interesse ai “processi psichici” alla base dei comportamenti additivi (dalle sostanze psicotrope, dal sesso, dal cibo, da internet, ecc.). In particolare, diversi studiosi, come Goodman, Khantzian, Dodes, Taylor, hanno rivolto la loro attenzione al deficit della regolazione degli affetti, che considerano come uno dei fattori nucleari che sembra accomunare il disturbo da uso di sostanze agli altri comportamenti compulsivi quali l’alcolismo, il gioco di azzardo, i disturbi del comportamento alimentare, le dipendenze sessuali e quelle che vengono definite dipendenze affettive o tossicomanie oggettuali (ovvero la ricerca incessante di esperienze sentimentali e di stati di innamoramento). Tale raggruppamento di   condotte

(82)  Articolo sito internet www.in-formazione-psicologia.com “Ricerca e formazione in psicologia”.

additive impone un chiarimento su cosa accomuni manifestazioni psicopatologiche apparentemente così differenti, laddove la ricerca evidence-based sulle psicoterapie (che però presenta frequentemente evidenti problemi metodologici) sembra suggerire forme di trattamento specifiche per le diverse condotte di addiction. Occorre, pertanto, chiarire il costrutto di riferimento: definiamo come dipendenza patologica una forma morbosa caratterizzata dall’uso distorto di una sostanza, di un oggetto o di un comportamento; uno stato mentale disfunzionale caratterizzato da un sentimento di incoercibilità e dal bisogno coatto di essere reiterato con modalità compulsive; ovvero una condizione invasiva in cui è presente il fenomeno del craving, nell’ambito di un abitudine incontrollabile e irrefrenabile che causa un disagio clinicamente significativo. Tale definizione ci consente di muoverci più agevolmente rispetto ad una comprensione dei fenomeni di addiction, attraverso una visione multifocale e dimensionale in cui al di là dell’apparente diversità delle manifestazioni cliniche possono essere indagati i processi evolutivo-relazionali e psicodinamici comuni che stanno a fondamento delle differenti espressioni della dipendenza patologica.

Nonostante le evidenti differenze in merito all’oggetto della dipendenza, i comportamenti additivi sembrano tutti rappresentare un tentativo disfunzionale di contrastare l’emergere incontrollato di vissuti traumatici infantili. Sono infatti numerose le ricerche che confermano la presenza di traumi relazionali nell’infanzia in chi soffre di una qualche forma di dipendenza patologica. Si tratta di esperienze di trascuratezza emotiva, di abuso fisico, sessuale e/o psicologico, le cui componenti emotive risultano escluse dal normale flusso di coscienza e depositate in un sistema di memoria traumatica implicita. Se le emozioni traumatiche tendono a riemergere, esse si presentano il più delle volte sotto forma di sintomi post-traumatici (iperattività, rabbia, confusione del pensiero, amnesie dissociative, disturbi somatici), che il soggetto può cercare di contrastare ritirandosi in stati mentali dissociati dal resto della coscienza ordinaria, per mezzo di un oggetto-droga.

Ciò avviene in quanto lo sviluppo psichico di ciascun individuo si origina all’interno di un sistema intersoggettivo primario, dove si organizzano i processi mentali di attenzione, percezione e memoria, ma anche la selezione degli affetti e delle risposte comportamentali. John Bowlby, evidenziò proprio che le rappresentazioni mentali relative a sé ed all’altro si costituiscono durante la relazione del neonato con i suoi caregiver e si organizzano in schemi cognitivo-affettivi che egli definì “modelli operativi interni” (MOI). È evidente, dunque, il rapporto tra la qualità delle relazioni primarie e lo sviluppo dei MOI nel bambino: i MOI definiscono la visione del mondo che è propria di un individuo e le modalità attraverso cui questi rappresenta i propri stati affettivi e dirige le proprie azioni. MOI di tipo insicuro (e, ancor di più, quelli caratterizzati da confusione o disorganizzazione) vanno dunque di pari passo con esperienze di accudimento negative o trascuranti, che impediscono lo sviluppo di strategie adeguate per l’autoregolazione degli stati affettivi.

Nello sviluppo sano, la particolare attenzione che la figura di accudimento dimostra verso le emozioni del proprio bambino si esprime attraverso un processo di “sintonizzazione affettiva”, che rende possibile la condivisione di stati emotivi positivi, manifestati da bambino attraverso il gioco ed altre attività, e che costituirà un perno delle modalità di compartecipazione intersoggettiva degli stati affettivi.

I genitori capaci di sintonizzarsi affettivamente con il proprio figlio possiedono un’acuta sensibilità nei confronti delle sue espressioni e delle sue manifestazioni emotive, prestandogli attenzione e modificando naturalmente le loro condotte in conformità a ciò che osservano del suo comportamento. In tal modo favoriscono nel bambino un adeguato sviluppo affettivo e cognitivo, generando un mondo relazionale in cui egli può sperimentare se stesso come un essere che sente, pensa, desidera. In condizioni normali, lo sviluppo progredisce dunque da un’esperienza sensoriale della realtà ad una visione progressivamente più complessa del mondo interno ed esterno. La caratteristica distintiva di questo processo è l’emergere della consapevolezza e della capacità di mentalizzare: ciò implica la possibilità di concepire l’esistenza di pensieri e sentimenti in se stessi e negli altri e di riconoscere la connessione di questi stati mentali con la realtà esterna.

I comportamenti delle figure di accudimento e le loro reazioni alle espressioni emotive del bambino aiutano quest’ultimo a focalizzare l’attenzione sulle proprie esperienze interne, dando loro una forma: in tal modo le emozioni assumono un significato, diventando via via più gestibili. I bambini emotivamente trascurati, invece, non potendo riscontrare il proprio “essere intenzionale” nella mente del caregiver, svilupperanno ridotte capacità di rappresentare gli stati mentali propri e altrui e ciò si esprime frequentemente attraverso l’insorgenza di disturbi dello sviluppo e, in età adulta, attraverso la comparsa di dolorose condizioni psicopatologiche caratterizzate da una predominante dimensione interiore di vuoto affettivo e cognitivo. Secondo questo modello teorico, dunque, il soggetto dipendente percepisce dei vissuti emotivi dolorosi, sconvolgenti e sopraffacenti, sia rispetto ai propri stati mentali che alle relazioni oggettuali, ma non è in grado di contrastarli efficacemente, poiché presenta un deficit, di natura evolutiva, rispetto alla capacità di identificare e mentalizzare le emozioni.

Tale deficit si instaura a causa di difficili esperienze relazionali nell’infanzia, spesso caratterizzate da fenomeni di abuso, da trascuratezza emotiva o da disinteresse da parte dei genitori, che avvelenano la personalità disconnettendo l’unità psiche-soma, frammentando il Sé e producendo un dolore non- nominabile (poiché impensabile). Ciò rende più probabile il ricorso a forme di dipendenza patologica, all’interno delle quali l’oggetto-droga funge da regolatore esterno degli stati affettivi. Uno dei principali fattori eziopatologici delle addiction, dunque, risiederebbe nelle relazioni traumatiche vissute nella prima infanzia: esse possono determinare un ricorso pervasivo a meccanismi difensivi di tipo dissociativo, i quali hanno proprio lo scopo di escludere dalla coscienza le esperienze intollerabili e gli stati emotivi “non-mentalizzabili” a questi connessi.

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