Storia della psicologia – Da Wundt in poi
In psicologia coesistono diversi modelli, diversi metodi di indagine e diversi oggetti di studi. Il modo migliore per comprenderli riguarda sicuramente la storia della psicologia.
La ricerca della storia della psicologia permette di capire quale sia il paradigma entro cui la propria attività si compie e ne determina i vantaggi e i limiti. La cultura storica ed epistemologica inoltre allontana il rischio dell’ideologia (esplicitando di volta in volta il “punto di vista adottato”) e offre una “visione aerea” delle scuole più autorevoli e significative.
Fin dalla nascita della psicologia come materia scientifica si può riconoscere, al suo interno, la coesistenza di stili contrabbosti. Lo stesso Wilhelm Wundt, padre della psicologia scientifica da un lato afferma l’importanza di applicare anche all’indagine sulla psiche la metodologia delle scienze naturali, dall’altro riconosce la necessità di una “psicologia filosofica” che si rivolga a quegli “oggetti” complessi non accessibili all’indagine di laboratorio.
Queste due “anime” della psicologia che Wundt aveva cercato di tenere insieme, si separano successivamente in maniera decisa: mentre la tradizione filosofica continua ad agire negli sviluppi della psicologia europea, la cultura nordamericana tenderà ad accentuare progressivamente il progetto di assimilazione della disciplina alle altre scienze della natura.
Infatti, Titchner, allievo di Wundt fondò la scuola strutturalista di impostazione sperimentale compiendo un ulteriore passo decisivo verso la separazione delle due tradizioni di pensiero. L’attenzione viene spostata tutta sul versante del metodo sperimentale, dell’elementismo associazionistico, e della misurazione psicologica.
James Angell e Harvey Carr, sostenitori del funzionalismo, sostengono che la psicologia non debba occuparsi della struttura dei contenuti psichici ma dei processi e delle funzioni che favoriscono l’adattamento dell’individuo all’ambiente. Tutto ciò annuncia il definitivo declino dell’introspezione (metodo proprio all’indagine psicologica strutturalista) a favore di un ecclettismo (sperimentazione di laboratorio, metodo genetico, osservazionale oggettivistica e soggettivistica) basato sull’utilità pratica e capace di rendere conto dei comportamenti umani fuori del laboratorio, nell’interazione con l’ambiente naturale.
Successivamente al funzionalismo si sviluppò il comportamentismo di Watson. Tutti gli eventi “mentali”, i fenomeni che non abbiano un riscontro oggettivo in comportamenti osservabili non sono oggetto di studio della psicologia scientifica. La scelta del metodo è qui prioritaria e determina, quale conseguenza, la scelta dell’oggetto scientifico. Secondo tale approccio, i processi mentali sono non osservabili, e dunque non possono essere studiati scientificamente. I comportamentismo chiamavano la mente “black box” (scatola nera), proprio perché ritenevano impossibile lo studio dei processi interni della mente.
La strategia di ricerca si consolida nel metodo sperimentale di laboratorio e il tema pervasivo delle indagini diventa l’apprendimento, con i noti esperimenti sul condizionamento.
Il comportamentismo contemporaneo, pur conservando una sostanziale continuità con le premesse epistemologiche e con le finalità di previsione e controllo assegnate da Watson alla psicologia, si caratterizza per il rifiuto del meccanicismo (stimolo-risposta) a favore di una visione olistica e attiva delle azioni umane e per l’elaborazione della nozione di contesto.
Alla fine degli anni 50 prende inizio il dibattito tra i comportamentisti e i primi cognitivisti. Il nodo della questione riguarda ancora l’oggetto della psicologia e cioè se nell’ambito della spiegazione psicologica debbano o meno essere introdotti i processi mentali. I cognitivisti, in altre parole, si chiedevano se, metaforicamente, la black box potesse essere aperta. I comportamentisti, di fatto, lasciando fuori dal campo di indagine il processo mentale si lasciavano sfuggire proprio i processi più specificamente psicologici. In fondo, tra lo stimolo esterno (osservabile) e la risposta del soggetto (osservabile) non si può negare che ci sia qualcosa.
I cognitivisti, dunque, con Neisser (1967) avevano spostato l’attenzione sui processi cognitivi mette in crisi il criterio positivistico della scientificità, come conoscenza di leggi generali sottoponibili a verifica empirica e lascia spazio a modelli probabilistici.
Tuttavia anche il cognitivismo è stato criticato da correnti successive e in particolare dai sostenitori delle teorie costruttivistiche.
Il costruttivismo si riferiscono all’uomo non tanto come “elaboratore di informazioni”, quanto come “costruttore di significati” e all’ambiente non più come luogo di stimolazioni esterne, ma come universo di simboli e di esperienze.
La persona non riceve degli input (stimoli) e li elabora come un computer (cognitivismo), ma co-costruisce nell’interazione con l’ambiente una sua realtà individuale.
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