Come Scoprire le Menzogne con le Neuroscienze
Concludendo, possiamo dire che l’ultimo decennio ha visto la ricerca scientifica nell’ambito delle neuroscienze progredire in un modo che non ha precedenti, specialmente per quanto riguarda i complessi meccanismi che regolano il rapporto tra mente e cervello.
Sulla scia di tali sviluppi, il numero di esperimenti sempre più sofisticati, mirati a spiegare le basi neurobiologiche e neurofisiologiche del comportamento umano, si è esponenzialmente moltiplicato.
Le neuroscienze sembrano ormai essere in grado di “vedere” le attività cerebrali nel momento stesso in cui vengono generate, e questo grazie all’ausilio di strumenti di neuroimmagine tecnologicamente sempre più avanzati.
Per anni, le neuroscienze si sono dedicate a studi i cui obiettivi sono stati prevalentemente indirizzati a scoprire come
funzionano il linguaggio, la memoria, l’attenzione, le funzioni esecutive, la cognizione spaziale, ecc. Ad oggi, invece, essi sono tesi a identificare i processi cerebrali che sottendono esperienze e concetti quali il libero arbitrio, l’agire, il giudizio morale, la consapevolezza del “Sé”, la personalità, l’attitudine a mentire, ecc.
Con lo sviluppo di tale attitudine, sembra che le neuroscienze stiano aprendo nuove frontiere non solo in campo medico, ma anche in vari altri ambiti della vita umana, espandendosi quindi ben oltre la ricerca clinica e di laboratorio. Nella materia di studio in questione, possiamo dire che l’importanza sociale che riveste l’attività menzognera ha dato origine a diverse indagini, alcune condotte con lo scopo di rilevare l’individuo che mente, altre con quello di ricavare le aree cerebrali che si attivano nel mettere in atto questo processo. Tutte le metodologie che sono state finora presentate sono state messe a disposizione del Diritto, sia nella valutazione dei testimoni che in quella degli imputati.
Proprio per questo motivo, negli ultimi anni le pubblicazioni in merito all’impatto che le neuroscienze hanno, o potrebbero avere, sul diritto, si sono fatte sempre più frequenti e hanno acceso forti dibattiti. Un gran numero di studiosi italiani e stranieri, ognuno con riferimento al proprio sistema giuridico, ha espresso il proprio punto di vista
riguardo alle nuove scienze e al livello a cui queste si sono spinte nello studio del cervello umano e, se da un lato vi è un grande interesse ad approfondire il tema, dall’altro l’indagine risulta ad oggi ancora poco organica, dispersa tra tematiche diverse e con profili di approfondimento che mutano a seconda della prospettiva che si assume.
Cercherò di seguito di sintetizzare i punti salienti maggiormente fonte di critiche.
- L’assunto di partenza della stragrande maggioranza degli scritti che si occupano del dibattito è l’interrogativo sull’affidabilità oggettiva delle tecnologie che si occupano di capire se la dichiarazione di un individuo sia menzognera o meno.
- Inoltre, come descritto in precedenza, abbiamo visto che può capitare che l’imputato o il testimone dichiarino il falso senza volerlo perché incorrono in errori di percezione o di memoria.
- Un altro punto fonte di discussione è l’aspetto legato al problema della libertà di determinazione del soggetto. Uno dei principi più sacri della nostra dottrina, infatti, è quello che impone il “divieto di pratica della tortura e di tutti quei metodi che rappresentano la scorciatoia inumana e degradante nel percorso per accertare la responsabilità degli imputati, al fine di provocarne la confessione o di convalidare l’attendibilità delle deposizioni dei testimoni”.
Questo aspetto è sottolineato anche dal professor Paolo Tonini, docente di procedura penale, il quale mette in risalto che una “prospettiva di analisi emersa in dottrina, è quella che individua una tripartizione in seno alla previsione normativa e alle diverse tecniche di analisi dell’imputato o dei testimoni nel processo:
- la tortura inciderebbe sulla libertà di autodeterminazione poiché influisce sulla facoltà di reagire liberamente agli stimoli;
- la narcoanalisi e l’ipnosi inciderebbero sulla capacità di ricordare i fatti, in quanto il soggetto non sceglie di narrare i fatti o meno;
- le tecniche poligrafiche inciderebbero sulla capacità di valutare i fatti, in quanto capaci di attuare un condizionamento psichico della persona sottoposta al test”.
Ecco perché nel nostro sistema giudiziario l’uso delle tecniche poligrafiche non è ammesso.
Ma questo può valere anche quando le tecniche risultano talmente all’avanguardia da essere in grado, attraverso una semplice scansione cerebrale, di osservare ciò che accade direttamente nel cervello degli individui e di registrare dati che ci permettono di capire se le dichiarazioni riferite sono vere o false? E se abbiamo a che fare con metodi in grado di cogliere la menzogna utilizzando sofisticati algoritmi o con nuove procedure che parrebbero essere maggiormente affidabili rispetto al passato? In questo caso potremmo affermare che il diritto ha a sua disposizione strumenti sufficientemente in grado di tutelare i diritti fondamentali dell’individuo?
Presumibilmente, potremmo rispondere positivamente riferendoci al soggetto che rende testimonianza, ma di certo questo non vale se ci riferiamo ad un imputato. Ricordiamo infatti che, recentemente, esprimendosi nel merito dell’utilizzo di tecniche più o meno avanzate di lie-detection, la dottrina si è espressa asserendo che “non si può dimenticare […] che la procedura penale italiana attribuisce ad uno dei protagonisti della scena processuale – l’imputato – il diritto di mentire impunemente.
Costui, anzi, è legittimato in nome del diritto di difesa ad opporsi attivamente al tentativo delle parti di smascherarne la falsità, rifiutando di rispondere anche solo all’una o all’altra delle domande che gli fossero rivolte nel corso dell’esame (art. 209 comma 2 c.p.p.)”.
Quindi la domanda iniziale evolve in come conciliare libero arbitrio, diritto a non autoincriminarsi e rispetto della libertà morale in relazione alle scoperte neuroscientifiche e all’utilizzo di tecniche di neuroimaging e di memory detection.
Sulla base di quanto esposto nel capitolo, possiamo asserire che “le eventuali riflessioni giuridiche sulla utilizzabilità di tali tecniche devono essere condotte avendo bene in mente le sostanziali differenze che intercorrono tra queste […] evitando di collocarle tutte in un’unica equivoca categoria. […] Quali che siano le conclusioni di tali riflessioni, infatti, è necessario che queste si muovano evitando di condensare in un unico calderone (e così trarre deduzioni approssimative) tecniche e strumenti che in realtà condividono solo una generica appartenenza lessicale”.
Concluderei ricorrendo alle parole di Luisella de Cataldo Neuburger, la quale ci ricorda che, in fondo, “un processo è una finzione dove la verità è soggetta ad una negoziazione ela decisione finale riflette solo una descrizione plausibile della realtà. […] Non sappiamo […] quanto distante possa essere quel giorno in cui sarà possibile, attraverso la scansione di una PET (Positron Emission Tomography) o di una Risonanza Magnetica funzionale (fMRI), stabilire se un imputato è colpevole di omicidio premeditato o solo di omicidio preterintenzionale, certo è che già oggi è possibile documentare, attraverso le neuroimmagini, l’entità di una lesione del lobo frontale e chiarire che un soggetto, affetto da tale lesione, manca del substrato neurale che è alla base dell’autocontrollo e, per così
dire, del “libero arbitrio del no”. Le neuroscienze sembrerebbero quindi destinate, con la scoperta di alcuni meccanismi responsabili del comportamento, a ridisegnare il nostro senso intuitivo di giustizia ed influenzare il nostro modo di guardare il diritto”.
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