La storia delle emozioni in psicologia

di Roberto Desiderio

Lo studio, l’elaborazione teorica e la ricerca sulle emozioni rappresentano uno dei fondamentali oggetti di ricerca nella storia della psicologia. Tale centralità, presente sin dalle origini, è rinvenibile anche nel panorama contemporaneo. Nonostante siano un importante riferimento nelle opere letterarie di tutte le culture, tra gli studiosi non si riscontra una prospettiva teorica condivisa riguardo alla loro natura. Negli ultimi cento anni sono state fornite numerose definizioni del termine, ma nessuna di esse è riuscita a creare un accordo tra i ricercatori.

Il primo studioso a definire l’emozione fu William James, una delle figure più eminenti della storia della psicologia che, nel 1884, scrisse: <La mia teoria è che i cambiamenti corporei seguano direttamente la percezione del fatto eccitante, e che la nostra percezione dei cambiamenti man mano che si verificano, sia l’emozione.>[1] L’ipotesi di James, infatti, era che le modificazioni corporee, come l’accelerazione del battito cardiaco o l’aumento della pressione arteriosa, venissero percepite per prime e l’emozione fosse causata dal loro riconoscimento.

Successivamente John Watson, uno dei fondatori del comportamentismo, in un articolo del 1920 definì l’emozione come <una “reazione strutturata” ereditaria che implica profonde modificazioni in tutti i meccanismi corporei, ma in particolare nei sistemi viscerali e ghiandolari>. Queste modificazioni, secondo lo studioso, mostrano pattern diversi per emozioni differenti e sono basate su sistemi ereditari innati.

Come estensione di questa idea, Walter Cannon ritenne che talamo e ipotalamo fossero il centro di integrazione delle sensazioni e dei comportamenti ad esse collegati.[2]  L’idea di Cannon fu molto importante in quanto stimolò gli psicologi a interessarsi delle funzioni cerebrali; questo segnò l’inizio di numerose ricerche riguardanti il ruolo svolto dalle diverse aree del cervello sulle manifestazioni emozionali.

Nel 1963 Paul MacLean, neurofisiologo interessatosi per molti anni al comportamento delle scimmie scoiattolo, giunse alla conclusione che le emozioni sono funzioni biologiche e in quanto tali svolgono un ruolo importante nella sopravvivenza di un individuo e del gruppo a cui appartiene, confermando la teoria di Charles Darwin.

John Bolwby introdusse nuovi spunti di osservazione sostenendo che <le emozioni sono fasi di una valutazione intuitiva, da parte dell’individuo, o dei propri stati organismici e impulsi all’azione o della sequenza delle situazioni ambientali in cui si trova (…) Nello stesso tempo, poiché sono accompagnate da particolari espressioni facciali, posture corporee e movimenti incipienti, in genere le emozioni forniscono informazioni importanti a chi gli sta vicino.>[3] Le emozioni sono, pertanto, valutazioni di eventi in corso all’interno o all’esterno dell’organismo, i cui segni si possono trovare nelle espressioni facciali, posture o impulsi all’azione. L’esplicitamento visivo di un’emozione facilita il passaggio di informazioni da un individuo all’altro.

Secondo Richard Lazarus[4], invece, esse modificano una situazione in corso e favoriscono un’azione appropriata al raggiungimento degli obiettivi; nel contempo, modificano anche lo stato espressivo dell’individuo che le sente.

Un ulteriore contributo ci è dato da Nico Frijda, il quale afferma che <le emozioni sono tendenze a stabilire, mantenere o interrompere una relazione con l’ambiente (…) L’emozione si potrebbe definire come una modificazione della prontezza all’azione in risposta a situazioni di emergenza o interruzioni.>[5] Un’idea importante espressa da questa definizione è che le emozioni sono modi in cui gli individui interagiscono tra loro e con l’ambiente circostante; se queste relazioni sono sgradevoli, le emozioni sono tentativi di interrompere o ridurre la relazione. Sono, inoltre, innescate da situazioni di emergenza e costituiscono le risposte a tali situazioni.

La presenza di molteplici definizioni rende evidente la difficoltà di formulare una prospettiva teorica condivisa e di riuscire ad inglobare in un’unica teoria le varie ricerche.

Un’ulteriore difficoltà riguarda l’uso del linguaggio nella descrizione degli stati emozionali. Le ricerche condotte da Davidz[6], a questo riguardo, mostrano che spesso il linguaggio adottato per descrivere una determinata emozione risulta ambiguo perché gli stati emozionali sono molto complessi tali da non poter essere descritti con una sola parola che includa sintomi fisici, atteggiamenti verso il sé, impulsi all’azione e modificazioni fisiologiche.

E’ opportuno sottolineare la limitazione che l’etica impone nei confronti dello studio sulle emozioni. La ricerca psicologica fa riferimento ad un codice etico che sancisce i principi guida generali della ricerca. In Italia, dal 1995 esiste un codice etico della ricerca proposta dall’AIP (Associazione Italiana Psicologia)[7]. I tre principi generali del codice possono essere riassunti in: competenza, integrità e responsabilità sociale. Il ricercatore deve, cioè, essere competente e formato al fine di utilizzare in modo consapevole le tecniche e gli strumenti di ricerca ed evitare rischi per il benessere fisico e psicologico dei partecipanti alla ricerca. Inoltre è tenuto a comunicare le sue qualifiche professionali, la sua formazione e le sue esperienze professionali precedenti. Deve, infine, essere responsabile a livello sociale della ricerca, facendo rispettare le leggi, favorire la diffusione delle conoscenze allo scopo di aumentare il benessere delle persone con cui lavora e insegnare nel modo corretto gli strumenti e le tecniche di ricerca. Da questi principi risulta chiaro che la ricerca sulle emozioni, specie per quelle negative, è assai limitata se non vietata.

Le problematiche sopra elencate riguardano aspetti che, ancora oggi, sono di importanza centrale nello studio delle emozioni e che riguardano tutti i ricercatori in questo campo.


[1] James W. 1884, What is Emotion? Mind, vol. 19, 188-205.

[2] Cannon W. La saggezza del corpo, Bompiani, Milano, 1978.

[3] Bowlby J. (1969) Attaccamento e Perdita. Vol. 1: L’attaccamento alla madre. Boringhieri, Torino 1972.

[4] Lazarus R.S., (1966), Psychological stress and the coping process, McGrawHill, New

[4]York.

[5] Frijda, N.H. (1990). Emozioni, Bologna, Il Mulino.

[6] Davitz J.R. (1969), The language of emotion, New Jork, academic Press.

[7] Per visionare la versione integrale si faccia riferimento al sito www.aispass.org.

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