L’anoressia, il vuoto totale e la mancanza di una vera persona importante
È facile e riduttivo pensare che quando c’è anoressia ci sia una tabula rasa, un corpo etereo e trasparente, il “vuoto”. In realtà per quanto questa condizione possa apparire ancora incomprensibile sotto certi punti di vista, dietro il “niente” di questi soggetti si nasconde sempre qualcosa, nel “vuoto” c’è sempre un senso, un significato, una storia, un’anima da capire.
L’anoressia, così come la bulimia, rappresentano una sfibrante e faticosissima lotta che l’individuo combatte giorno dopo giorno con se stesso per cercare di strappare la maschera che la società gli impone, per ritrovare se stesso in un mondo di indifferenza, per far fronte ai perché incessanti della vita, alle speranze impallidite, alle delusioni, alle paure.
Le condotte delle anoressiche e delle bulimiche sono spesso intese come la volontà di questi soggetti di affamarsi e affaticarsi solo per morire. Effettivamente molte di loro possono arrivare vicino alla morte e tante sono morte. Ma queste condizioni rappresentano un disperato e ultimo tentativo di trovare all’interno di se stesse un equilibrio o un qualcosa o per meglio dire un qualcuno che vorrebbero fosse accanto a loro. Il ripiegamento su se stesse, la chiusura e il rifiuto dell’incontro nascondono in realtà il desiderio di attenzioni, coerenza e sostegno da parte della propria famiglia, del proprio partner o di altre figure significative.
Il “vuoto” della fame dell’anoressia ha allora come fine il sopperire alla mancanza di una persona importante:
[…] la mancanza del soggetto, sulla quale s’innesta il desiderio del soggetto come desiderio d’Altro, come desiderio dell’Altro, come desiderio aperto sull’Altro, viene ridotta, degradata ad una pseudo – mancanza, al vuoto del corpo, a quel vuoto che l’anoressica deve poter sentire essere costantemente a sua disposizione, ad un vuoto autistico, chiuso su se stesso, liberato dal desiderio dell’Altro, anche se questa liberazione lo devitalizza, lo riduce ad un vuoto morto, al puro vuoto anatomico dello stomaco. [1]
Le abbuffate e il vomito compulsivo della bulimica servono per riempire il “vuoto” e poi paradossalmente per alimentare il vuoto stesso:
[…] la spinta a riempire il vuoto non riempie mai veramente – anzi, il suo riempimento quando si verifica produce angoscia, un eccesso di pieno, un troppo – ma in realtà non fa altro che alimentare il vuoto stesso. Il riempimento bulimico è infatti un moto perpetuo, infinito, senza pace. Il senso del vuoto deve potersi rinnovare al termine di ogni abbuffata come condizione perché l’abbuffata stessa possa ripetersi.[2]
Il digiuno e la fame diventano un porto sicuro dal problematico rapporto con l’Altro. Queste persone non si avvicinano a coloro che desiderano fortemente, ma al contrario si oppongono con forza. Meditano vendetta per fare loro del male ma allo stesso tempo fanno del male a se stesse. L’attaccamento viscerale a qualcuno e il desiderio di averlo vicino viene mascherato da questi movimenti. L’anoressica si consuma, trasforma il proprio corpo e, come se si fosse stancata di ruotare intorno all’Altro e di rimanerne costantemente affamata, comincia a soffrire di fame e a vomitare mostri e brutture quasi volesse liberarsene.
Il dramma di queste persone è che la propria magrezza è voluta ed offerta agli altri: specchio in cui si riflettono. I sintomi corporei più evidenti non hanno per loro alcuna importanza e vengono decisamente minimizzati o negati.
È comune nelle ragazze anoressiche sostenere che hanno intrapreso la dieta per loro volontà. Esse si vedono allo specchio grasse e pesanti, dicono di sentirsi benissimo e compiono azioni che richiedono una notevole resistenza fisica. Sono riluttanti a parlare della propria condizione e custodiscono gelosamente i propri segreti in quanto prova del loro essere straordinarie. Solo a seguito di un trattamento alcune di loro confessano quanto in realtà si sentissero male.
Quando Gertrude aveva diciassette anni, fu fatta aumentare di peso a forza, mediante modificazione comportamentale, il che suscitò le sue più accese proteste: “mi sentivo miserabile e disgustata nel mio nuovo corpo grasso. Volevo tirarmene fuori, dimagrire il più presto possibile. Non riuscivo a pensare ad altro; tutta la mia vita, il mio scopo preciso, il mio controllo erano andati in pezzi.” Molto più tardi, quando cominciò a sentirsi a suo agio nelle sue dimensioni normali, parlò degli orrori del periodo di inedia: “È come se si cercasse di fare una cosa che non viene naturale. Io mi ero imposto un regime che mi sembrava molto spiacevole, ma lo sopportavo perché me l’ero imposto da me”.[3]
Queste persone parlano della propria condizione come di una passione intensa, irrefrenabile e allo stesso tempo odiosa e contrastata. L’iper-attivismo, la mortificazione del desiderio dell’Altro, il controllo del cibo, il conteggio delle calorie, la scansione delle giornate in base alla dieta e all’esercizio fisico e la clandestinità del momento alimentare rappresentano proprio lo sforzo a non trasgredire al codice dell’anoressia e della bulimia. Questi sintomi mostrano ma allo stesso tempo nascondono qualcosa. L’essenziale sta altrove ed è indicibile.
Le anoressiche e le bulimiche si vogliono mostrare totalmente indipendenti dagli altri ma in realtà si vedono trascurate e inascoltate e hanno un enorme bisogno di sentirsi profondamente e continuamente amate e sostenute.
I comportamenti e le loro condotte possono essere realmente compresi solo tenendo conto del grande dramma di questi soggetti. Se essi da un lato ricercano disperatamente rapporti interpersonali stretti, profondi e costanti, dall’altro lato fanno di tutto per dimostrarsi completamente autonomi, autosufficienti e indipendenti. Molti di loro sono sempre pronti ad aiutare gli altri ma contrari a ricevere ogni tipo di aiuto.
Appare chiaro quindi come il ruolo della famiglia sia di significativa importanza nella genesi del disturbo. A tal proposito M. Selvini Palazzoli scrive:
In tali famiglie ciascuno fa qualcosa non perché lo desidera, ma in considerazione delle esigenze di un’altra persona, comunque per il bene di qualcun altro. Quanto alla paziente designata, anch’essa si è sempre sacrificata per il bene degli altri, così come vuole la regola esplicita della famiglia. [4]
Queste famiglie spesso si presentano come estranee a questa logica e rivendicano tutti i sacrifici che hanno fatto per dare ai figli “tutto” ciò di cui avevano bisogno. Ma è proprio questo “tutto” che le anoressiche e le bulimiche rifiutano attraverso le proprie condotte distruttive.
Meglio il “niente” dice infatti l’anoressica a qualunque cosa venga da loro. Perciò rifiutare il cibo così come abbuffarsi e vomitarlo sono un esempio esplicativo del fatto che attraverso il cibo è in realtà proprio l’Altro che si rifiuta, un Altro da cui ci si è sentiti rifiutati, un Altro che non ha saputo rispondere all’appello del soggetto in modo adeguato.[5]
[1] RECALCATI M., op.cit., p. 17.
[2] RECALCATI M., op.cit., p. 17-18.
[3] BRUCH H., La gabbia d’oro. L’enigma dell’anoressia mentale, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 31.
[4] SELVINI PALAZZOLI M., L’anoressia mentale, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 231.
[5] Cfr. BARBUTO M., PACE P., “Logiche del funzionamento e del trattamento della famiglia si soggetti anoressico-bulimici”, in RECALCATI M. (a cura di), Il corpo ostaggio. Teoria e clinica dell’anoressia-bulimia, Roma, Borla, 1998, p. 254.
di Federica Maria D’Autilia
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