La Menzogna secondo Oscar Wilde: Aforismi, Protobugiardo, Inganno Intenzionale

Spesso, all’interno della letteratura filosofica sull’analisi dei concetti, si suole cominciare un’indagine facendo riferimento alla definizione del dizionario. Mentire, infatti, vuol dire alterare la verità, affermare il falso con piena consapevolezza e intenzionalità di ingannare.

Colui che ha intenzione di ingannare trae dalla sua asserzione un effetto perlocutorio particolare, quello appunto di imbrogliare il suo interlocutore. Il bugiardo, cerca in qualunque modo di convincere che il suo asserto sia vero nonostante abbia piena coscienza di affermare il falso.

L’atto perlocutorio è la terza componente dell’atto linguistico nella teoria elaborata da John Austin (atto locutorio e atto illocutorio erano le prime due) ed è cioè l’azione che si compie nel dire qualcosa. Consiste nell’esprimere intenzionalmente, ma non per forza esplicitamente, qualcosa per produrre effetti sui sentimenti, i pensieri o le azioni di un’altra persona.

Sono due i principali modi di mentire: la dissimulazione e la falsificazione.

Pirandello spiega come sia impossibile condurre la propria esistenza senza portare sul volto una maschera, elemento indispensabile, che ci permette di non essere vulnerabili o troppo esposti alle varie vicende della vita. A ragione, Torquato Accetto, filosofo e scrittore del ’600, sostiene che questo nostro atteggiamento è un comportamento dissimulatorio, che ha come scopo la difesa e la salvaguardia umana. Ciò potrebbe sembrare quasi un pregio per l’uomo che sa nascondere le cose brutte non solo agli altri, ma anche a se stesso rendendo il percorso della vita meno sgradevole. Chi dissimula, allora, non dice completamente il falso ma si limita solo a celare determinate informazioni, mentre chi falsifica, non solo non rende esplicita la verità, ma addirittura arriva a spacciare per vera un’informazione falsa.

Chi fu, dunque, il primo a mentire?

Oscar Wilde, in un’elegante parabola che si trova tra le pagine del breve saggio La decadenza della menzogna, apparso nel 1889 sulla rivista “The Nineteenth Century”, cerca di trovare una risposta a questa domanda raccontando quali furono le prime labbra che pronunciarono una menzogna e se questo lo avesse fatto per un atto di viltà o di coraggio. In quest’opera troviamo a confronto, in un dialogo, Cyril che difende la supremazia estetica della natura e Vian, alter ego di Wilde secondo cui la menzogna sarebbe il fine ultimo dell’arte.

Egli, infatti, dimostra come il mondo sia demolito dalla verità e come solo la bugia sia un’arte degna di essere coltivata: nulla è vero ma solo ciò che crediamo lo sia. Se ci atteniamo alla narrazione della storia di Wilde, il primo bugiardo fu quell’uomo ancestrale che invece di uscire a cacciare con i propri simili resta nella caverna e al ritorno dei suoi compagni, con mimiche e gesti, inventa una propria battuta di caccia suscitando l’attenzione e la stima degli altri. Quest’uomo primitivo ha, così, fondato le prime relazioni sociali facendo nascere la menzogna e facendola crescere in relazione agli interlocutori. Il cavernicolo conosce bene chi ha di fronte e comprende, anche, quali siano le loro aspettative; questo gli permette di anticipare ciò che essi vogliono sentirsi dire: non è possibile mentire se non si conosce l’altro.

Dissimulare, ossia «il narrare belle cose non vere», è per Wilde un atto antinaturalistico che va oltre ogni valutazione etica e si trova in linea con le aspettative di chi ascolta ed è così, in modo efficace, tratto in inganno. Insomma, il bugiardo, di solito, conosce molto bene il suo interlocutore e con la menzogna è capace di rivelare tutto ciò che esso vorrebbe sentirsi dire e ciò a cui è disposto a credere. «L’inganno intenzionale richiede una rappresentazione della mente dell’altro, e un piano per manipolarla».

Ponendo a confronto l’allegoria della caverna di Platone e La decadenza della menzogna, vediamo subito che il prigioniero platonico si trova costretto ad uscire dall’antro per capire qual è la verità e, tornando a liberare i suoi compagni, rischia di non essere creduto e di essere deriso. Il protobugiardo, invece, non esce dalla caverna, aspetta solo che i suoi compagni facciano ritorno; egli sostituisce il dovere della verità con il piacere della menzogna. «Così l’arte della menzogna wildiana non significa starsene quietamente serrati ai ceppi dell’illusione, contemplando quel paleolitico succedaneo del cinematografo immaginato da Platone, ma liberarsene senza portare con sé la coazione dei ceppi […] Wilde, nella sua parabola del protobugiardo, azzarda una genealogia della cultura umana giocata sull’eccedenza del non essere necessario, sul lusso sovrabbondante della bugia»

di Federica Selvaggio

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