Perché un dipendente decide di lasciare l’azienda: il turnover in psicologia

Il turnover organizzativo in psicologia

La decisione di lasciare l’azienda in psicologia

 

Silvia Bernardi

L’interesse degli studiosi per il Turnover volontario dei lavoratori è iniziato circa un secolo fa (Slichter, 1919) e negli ultimi cinquant’anni è stato uno dei costrutti più studiati in ambito organizzativo.

Una associazione tipicamente studiata è quella fra la Soddisfazione e il Turnover, che in molti studi ha dato luogo a correlazioni negative, ma non troppo elevate: questo poteva essere spiegato dall’intervento di altre variabili moderatrici. Mobley (1977) ha postulato l’esistenza di un processo decisionale a più fasi, che solo alla fine porta all’effettivo abbandono dell’organizzazione; le riflessioni e le decisioni che caratterizzano ogni fase sono le seguenti:

1) valutazione del lavoro attuale;

2) vissuti di soddisfazione o insoddisfazione, la quale può provocare i primi comportamenti negativi, come l’assenteismo;

3) pensiero di lasciare l’azienda;

4) valutazione dell’utilità e dei costi associati alla ricerca di un nuovo posto di lavoro;

5) decisione di cercare un lavoro alternativo, su cui possono influire variabili esterne al lavoro, come il trasferimento del consorte;

6) ricerca di alternative;

7) valutazione delle alternative;

8) confronto delle alternative trovate con il lavoro attuale;

9) decisione di lasciare o meno il posto attuale, su cui possono influire variabili di personalità come la maggiore o minore impulsività;

10) messa in pratica della decisione.

Il percorso che ogni individuo può compiere è diverso e soggettivo, non necessariamente contempla il passaggio da tutti gli step indicati e può variare anche il grado di consapevolezza con cui viene compiuto; ciò che accomuna i diversi percorsi, però, è la presenza delle intenzioni, che moderano la relazione tra Soddisfazione e Turnover effettivo (Mobley e colleghi, 1979).

Un’altra associazione che è stata piuttosto frequentemente indagata in letteratura è quella fra il Turnover e il Commitment Organizzativo, perché l’idea di fondo era che un lavoratore attaccato alla propria azienda sarebbe stato intenzionato a continuare a lavorare per essa (Mowday e colleghi, 1982). Numerosi studi successivi, però, hanno riportato basse correlazioni tra Commitment e Turnover (Mathieu e Zajac, 1990; Randall, 1990), probabilmente a causa di variabili moderatrici.

Porter e colleghi (1976) hanno trovato che, benché il Commitment per l’azienda sia relativamente più stabile nel tempo rispetto alla Soddisfazione (Mowday e colleghi, 1982:28), il suo declino può essere molto rapido e portare in breve tempo all’abbandono dell’azienda; il problema è misurare con accuratezza la probabilità che un individuo viva questo declino, perché maggiore è il lasso di tempo che intercorre tra la misurazione del livello di Commitment e l’effettivo Turnover, meno è accurata la misura della relazione tra questi due costrutti, perché possono venire coinvolte numerose altre variabili intervenienti che possono falsare la rilevazione (Cohen, 1993). Lo studio svolto da Cohen ha mostrato risultati a favore di questa idea quando la variabile moderatrice era l’età, perché la relazione tra i due costrutti si è dimostrata più forte quando l’intervallo di misurazione era più breve, negli intervistati più giovani rispetto a quelli di età più avanzata.

Al contrario, la previsione di abbandono sarà più accurata se l’intervallo di tempo fra le misurazioni è ampio, nel caso di persone con età più elevata, perché la decisione di abbandonare l’azienda potrebbe venire attuata solo dopo del tempo a causa dell’interferenza di fattori come la difficoltà a trovare alternative o il desiderio di stabilità.

Fino a qualche decennio fa, le ricerche sul Turnover erano realizzate valutando in un certo momento le attitudini e le intenzioni dei soggetti, e calcolando in un secondo tempo il numero di individui che effettivamente avevano lasciato l’azienda, per poi fare dei confronti; in questo modo, però, non si otteneva nessuna informazione sulle motivazioni e i meccanismi coinvolti in questo processo. Nel 1996 Lee e Mitchell hanno proposto un modello esplicativo che avrebbe dovuto rendere conto di tutte le diverse modalità e motivazioni per cui viene lasciata un’azienda: tale modello prevedeva 4 diversi tipi di percorso che le persone tendenzialmente compirebbero passando attraverso alcuni punti fondamentali, che vengono di seguito elencati.

- uno “shock”, cioè un evento particolare, discordante rispetto al normale flusso di eventi (come una fusione aziendale, il trasferimento del consorte, una nuova proposta di lavoro) che dà inizio all’analisi psicologica che precede l’abbandono dell’azienda;

- un “piano d’azione”, che è pre-esistente rispetto allo shock e si basa sull’osservazione della situazione altrui, sulle informazioni raccolte, sulle proprie aspettative future o esperienze passate;

- la “ricerca”, ovvero tutte le attività coinvolte nel trovare delle alternative e nel valutarne pro e contro;

- la “violazione dell’immagine”, che consiste nell’incompatibilità tra gli obiettivi e i valori della persona e quelli della propria azienda;

- il “basso livello di soddisfazione”, che una persona prova quando si accorge che la propria azienda non fornisce i benefici intellettivi, emotivi o economici che avrebbe desiderato.

Ogni persona può compiere un diverso percorso, a seconda di quali componenti incontra e del modo in cui vi reagisce; dai risultati, tuttavia, è emerso che il 37% dei soggetti intervistati non aveva trovato corrispondenza fra il percorso svolto e uno dei quattro proposti. Lee, Mitchell e colleghi (1999) hanno proposto un’integrazione di questo modello, ampliando le definizioni delle componenti e il numero di percorsi effettivamente percorribili, e hanno ottenuto un notevole aumento della corrispondenza alla realtà, a conferma del fatto che le persone mettono in atto diversi ma sistematici percorsi quando decidono di lasciare l’organizzazione in cui lavorano.

Sturman e colleghi nel 2012 hanno condotto uno studio cross-culturale per scoprire se la relazione curvilinea tra performance lavorativa e Turnover (Jackofsky, 1984) fosse influenzata dalle differenti appartenenze culturali: tale relazione, infatti, pur avendo ricevuto numerose conferme empiriche, potrebbe essere influenzata da bias di appartenenza, perché gli studi sono stati condotti negli Stati Uniti o in altri contesti con caratteristiche molto simili. I risultati di questo studio cross-culturale permettono di affermare che è possibile generalizzare a diversi stati l’esistenza di una relazione non lineare tra i due costrutti che, però, varia a seconda del contesto perché le variabili culturali intervengono come moderatrici. Integrando questi risultati con il modello esplicativo di Lee e Mitchell (1999) è possibile ipotizzare che la cultura faciliti la presenza di alcuni percorsi rispetto ad altri: ad esempio si è trovato che l’effetto moderatore della cultura ha effetti più elevati nel caso di individui che ottengono prestazioni scarse, perché culture più collettivistiche, con maggior propensione ad evitare l’incertezza, possono avere leggi e norme che proteggono i lavoratori dal licenziamento, oppure a seconda del contesto possono essere diversi gli elementi potenzialmente fonte di shock.
Per la rilevazione delle intenzioni di Turnover sono presenti in letteratura diverse scale, fra cui quella di Mobley, Horner e Hollingsworth (1978) e quella di Mowday, Kolberg e McArthur (1984).

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