Il tema dell’aggressività in psicologia
Per aggressività si intende qui la capacità di infliggere danno o dolore mediante comportamenti verbali o non verbali. Tuttavia è difficile stabilire una linea netta di confine tra il comportamento aggressivo e quello non aggressivo. La stessa azione potrebbe essere interpretata da altri come apertamente aggressiva. Inoltre l’aggressività risente di fattori culturali, le stesse azioni possono essere percepite come più o meno aggressive a seconda del gruppo di appartenenza, o del contesto.
A proposito dell’aggressività sono stati scritti moltissimi libri, e nelle varie epoche storiche e nei vari filoni di pensiero, l’aggressività è stata pensata e munita di significati diversi.
In filosofia, se per Hobbes, le persone sarebbero inclini all’aggressività verso i proprio simili e quindi necessitano di istituzioni sociali in grado di reprimere le tendenze antisociali e assoggettarle alle esigenze della convivenza civile, per Rousseau esiste una natura fondamentalmente buona, corrotta proprio dalle esigenze della civiltà.
Freud, padre della psicoanalisi, invece, definisce le pulsioni come “le forze che supponiamo star dietro le tensioni dovute ai bisogni […] rappresentano le richieste corporee avanzate alla vita psichica” [Freud 1938] e “afferma che l’aggressività umana è inevitabile e frutto della tensione fra due pulsioni primarie, quello di autoconservazione (Eros) e quello di autodistruzione (Thanatos)” [Palmonari et al. 2002].
Mentre la prima macrocategoria di istinti di riguarda le pulsioni sessuali, quelle di impossessamento e quelle di sopravvivenza, la seconda riguarda soprattutto la distruzione e l’aggressività.1 Infine afferma anche che “ nelle funzioni biologiche le due pulsioni fondamentali agiscono l’una contro l’altra, oppure si combinano insieme. Così l’atto del mangiare è una distruzione dell’oggetto con il fine ultimo di incorporarlo, e l’atto sessuale un’aggressione che si propone la più profonda delle unificazioni” (Freud 1938). Intende dunque anche l’atto sessuale come un atto aggressivo, ecco come la concezione di aggressività può mostrarsi come fortemente mutevole nei vari autori.
Un testo fondamentale, Il disagio della civiltà [1929] nel quale Freud esprime la sua concezione della civiltà, Freud sostiene che la civiltà pone dei limiti alla manifestazione delle pulsioni aggressive attraverso le norme, i comandamenti, le restrizioni, ottenendo tuttavia soltanto di prevenire i peggiori eccessi dell’aggressività umana.
In buona sostanza, Freud sosteneva, in un’ energia psichica, a somma fissa all’interno della persona, da esprimersi comunque in qualche modo. Tuttavia ci si può servire del meccanismo di difesa secondario di sublimazione per convogliare pulsioni non accettate, verso mascheramenti socialmente desiderabili.
Oggi non è possibile riferirsi al cosiddetto modello idraulico, nella spiegazione e nell’interpretazione dei comportamenti. Numerosi studi mostrano quanto non è possibile parlare dell’aggressività, come dell’affetto, come una quantità a somma fissa.
E’ illuminante l’opinione e il riferimento a un caso specifico di Giovanni Jervis (2001):
“In pace come in guerra, tutti i comportamenti, assai variegati, che giudichiamo “aggressivi” o violenti non dipendono da un istinto pronto a scaricarsi e meno che mai da una astratta, ipotetica aggressività o cattiveria o tendenza al male. Si tratta piuttosto di potenzialità e di apprendimenti, di adattamenti e assimilazioni, di risposte a segnali e condizionamenti. Fra l’altro accade che la propensione a gare del male aumenti progressivamente con l’uso, e che alla crudeltà ci si abiuti – e persino ci si affezioni – per piccoli passi. […] Qualche tempo fa conobbi uno psicologo un po’ ingenuo il quale trovandosi a lavorare in una comunità terapeutica per ragazzi difficili e avendo a che fare con un adolescente affetto da tendenze aggressive, non trovò di meglio che fargli disegnare due volte la settimana con matite colorate scene cruente. Lo psicologo credeva che quel giovane sarebbe migliorato se si fosse sfogato su un innocuo terreno cartaceo. Ma il risultato – prevedibile, disponendo di un minimo di competenza – fu che il suo paziente divenne ogni giorno più inquieto e dopo qualche settimana si rese responsabile di una sanguinosa aggressione.”
La prima ipotesi che si allontana dalla concezione di aggressività come legata alla natura umana è quella di Dollard e Miller, in Frustration and Aggression, testo del 1939, dove si afferma un legame tra frustrazione e aggressione. Con Dollard e Miller, a una frustrazione corrisponde sempre una aggressione, non necessariamente rivolta alla fonte della frustrazione.
Tuttavia anche questa tesi non spiega tutto, in quanto ci sono reazioni alla frustrazione per nulla aggressive, ricerca di coerenza interna2, pianto, fuga, una semplice osservazione che invalida il modello di Dollard e Miller.
Negli anni ’60 , nasce un nuovo approccio, quella della teoria dell’apprendimento sociale di Albert Bandura. Secondo questa teoria “l’aggressività non può essere compresa se non si concepisce come un comportamento sociale che, al pari degli altri comportamenti sociali, viene acquisito e mantenuto a determinate condizioni” [Palmonari et al. 2002] Tramite dunque l’esperienza diretta o l’apprendimento vicariante sarebbe possibile “apprendere” l’aggressività.
In un esperimento noto come l’esperimento della bambola Bobo [Bandura, Ross e Ross 1961] , un adulto maltrattava un pupazzo davanti a un gruppo di bambini (cond. Sperimentale) , oppure giocava normalmente con lo stesso pupazzo (condizione di controllo). Successivamente usciva dal laboratorio lasciando i bambini liberi di giocare mentre venivano osservati i loro comportamenti. Da queste osservazione emerse che i bambini che avevano assistito al maltrattamento del giocattolo da parte dell’adulto tendevano a riprodurre lo stesso di controllo, azioni che non avvenivano nella condizione di controllo. Queste evidenze posero dei quesiti a proposito del tipo di materiale televisivo e se fosse effettivamente svantaggioso mostrare spesso scene violente. Tuttavia non è possibile mostrare un legame causale tra aggressività e gli spettatori di programmi televisivi in base violenta. L’ordine di causalità può solo essere ipotizzato come unidirezionale in uno o l’altro verso, oppure, come legame bidirezionale: non sappiamo cioè se le persone aggressive preferiscono programmi violenti o i programmi in questione causano comportamenti imitativi. Sembra più probabile che le due interpretazioni non si escludano a vicenda.
E’ forse opportuno intendere l’aggressività come una caratteristica che varia fortemente da un soggetto all’altro e che risente di fattori sia genetici, che educativi che ambientali. Questa tendenza è più spiccata nei maschi che nelle femmine. In tutte le specie di mammiferi i maschi più aggressivi sono anche quelli che hanno più rapporti sessuali, e il legame fra essere aggressivi e sessualità è confermato dal fatto che dei due principali mediatori chimici, i quali attivano e modulano nel nostro cervello i comportamenti aggressivi, uno è l’ormone maschile, o testosterone (mentre l’altro è la serotonina).
Il sistema aggressivo si lega spesso all’assertività: essere esplorativi e assertivi comporta inevitabili scontri con altri soggetti altrettanto esplorativi e assertivi quanto noi: per spiegare la presenza di comportamenti aggressivi non è quindi sempre necessario ricorrere a una ipotetica tendenza alla conflittualità ma basta far riferimento alla scarsità delle risorse
Non sono ultimi dunque, per le motivazioni sopracitata, i fattori endocrini 3 nello scatenamento dei fattori aggressivi.
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