Il campo gruppale e il gruppo in psicoanalisi

di Maria Gloria Luciani

Il campo gruppale e il gruppo in psicoanalisi

Per concedere una panoramica completa ed aggiornata sul concetto di gruppo, contestualizzando le sue peculiarità sviluppatesi nel tempo all’ interno di una prospettiva psicodinamica, non si possono di certo ignorare i contributi psico – gruppoanalitici di S. Freud.
Partendo dai precedenti lavori di Le Bon e McDougall, il padre della psicoanalisi scrisse un’ opera nel 1921, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, tramite la quale volle indagare i fenomeni sociali con gli stessi strumenti con cui studiava le dinamiche individuali, infatti egli sosteneva che i fenomeni caratteristici della vita di gruppo non erano poi così lontani dalle scoperte psicoanalitiche relative ai processi individuali (Freud, 1921). A causa di questa sua convinzione Freud non superò il limite che iniziava a delinearsi tra la psicoanalisi e la psicologia ma pose importanti basi che aiutarono i suoi successori ad integrare i due approcci partendo dalle sue intuizioni.

Egli riteneva, infatti, che la spiegazione del comportamento della massa derivasse dal legame affettivo che si stabiliva all’unisono tra i singoli individui e dal legame che gli individui intrattenevano con il capo. Freud non aveva dubbi che si trattasse di un legame libidico: “la massa viene evidentemente tenuta insieme da qualche forza. A quale forza potremmo attribuire meglio questa funzione se non a Eros, che tiene unite tutte le cose del mondo?” (Freud, 1921, p. 282).
La descrizione del fenomeno della folla in termini freudiani resta tuttora estremamente moderno ed attuale:
Una folla primaria si presenta come un insieme di individui che hanno sostituito il loro ideale dell’Io con un medesimo oggetto, il che ha avuto come conseguenza l’identificazione del loro io (Freud, 1921, p. 261). Così Freud, prima di tanti altri, aveva già scoperto il valore del legame e delle forze che rendono un insieme di persone un unico corpo.

Da questo concetto deriva quello attuale del “gruppo” considerato come un numero di persone in grado di stare insieme solo fino a quando all’esterno ci saranno altri gruppi, altre persone verso cui esprimere i propri sentimenti aggressivi. I gruppi esterni sono di fondamentale importanza poiché altrimenti non si saprebbe verso chi dirigere le proprie tendenze emotive spesso definite ambivalenti. Tale ambivalenza è dovuta, secondo Freud, all’ambiente familiare da cui si apprendono schemi emotivi che poi si trasferiscono nelle relazioni sociali attraverso forme di identificazione con il leader (rappresentante della figura paterna) o con chi condivide gli stessi legami.

Freud non andò oltre questa concettualizzazione teorica che però venne considerata un punto di riferimento iniziale per lo sviluppo delle teorie e pratiche cliniche psicoanalitiche sui gruppi.
Il concetto di gruppo senza una sua applicazione clinica non avrebbe avuto così tanta risonanza e non avrebbe scaturito così tante discussioni ancora oggi.
La gruppoanalisi è l’applicazione clinica del concetto di gruppo ed è una tecnica terapeutica di derivazione psicoanalitica che si sviluppa, non da una singola mente creatrice, nel contesto culturale della psicologia di gruppo e che si arricchisce del contributo psicoanalitico dopo la Seconda Guerra Mondiale. Bion e Foulks vengono considerati i veri fondatori e la prima esperienza di gruppoanalisi viene fatta risalire agli anni quaranta: l’esperimento nell’ospedale militare di Northfield (Colamonico, 2002).
Con Bion avvenne una rilettura della gruppalità nonostante continuasse a riconoscere il ruolo preponderante della famiglia nelle dinamiche di gruppo primitive.
Questa rilettura ebbe origine da una diversa concezione della mente, in connessione molto più stretta con il cervello, e del pensiero, formato da un tutt’uno tra cognizione ed affetti che gli ha permesso di stabilire una coesistenza tra pensiero primitivo ed evoluto.
Il luogo privilegiato di espressione di questo connubio è il gruppo in cui si incontrano il “cervello primitivo collettivo” (sistema protomentale) ed “il cervello evoluto collettivo”. Solo attraverso gli individui riuniti si trova il terreno adatto per capire la dinamica dei fenomeni protomentali che si stabiliscono in un piano somatico e psichico e danno luogo ad aspetti importanti del funzionamento di gruppo: l’automaticità, l’impulsività, l’incapacità a riflettere, il carattere trans-individuale.
Al di sopra del livello basico protomentale coesiste, secondo McDougall, l’unità super-individuale, “la mente di gruppo”, costituita dalle relazioni che si stabiliscono tra le menti degli individui ed in cui il soggetto non smette di essere un intero, nel gruppo (Neri, 2011).
BionAl suo interno l’identificazione proiettiva permette di comunicare le emozioni più primitive e di modulare le connessioni tra le menti originando uno spazio mentale comune. Da questo deriva la teoria bioniana del contenitore/contenuto secondo la quale il soggetto (contenuto) all’interno del gruppo (contenitore), tramite processi di crescita e soluzione armonica delle relazioni, riesce a rielaborare elementi beta (grezzi, protomentali) trasformandoli in alfa (elementi ricostruiti, adattati alla realtà, pensati e resi accettabili dall’individuo). In questo senso il gruppo diventa una macro-ricostruzione del rapporto madre-bambino o una macroscopica visione di adeguati processi mentali.
L’applicazione della teoria delle trasformazioni, in ambito clinico, diventa l’obiettivo da perseguire che in ogni individuo, seppur inconsciamente, si configura come obiettivo comune (Rugi, Gaburri, 1998). A tal proposito, alla teoria di Bion si aggiunse il contributo di un suo contemporaneo, Pichon-Revière, il quale affermò che un insieme di persone può essere considerato gruppo quando c’è un compito che li unisce: se delle persone si riuniscono è perché vogliono sviluppare un certo compito ed è proprio questo che permette il passaggio da un insieme di persone a una struttura gruppale (Pichon revèrie, 1985). Quest’ultima produce un apprendimento di gruppo e conseguentemente una coscienza ed una rappresentazione interna delle cose la quale può essere chiamata anche “schema gruppale” cioè una modalità con cui il gruppo affronta il compito: questo è ciò che Pichon definì “gruppo operativo”, teorizzazione elaborata successivamente dal suo allievo Bauleo.
Anche Foulkes fu uno tra i primi analisti europei ad occuparsi del gruppo dopo la seconda guerra mondiale, infatti negli anni quaranta del novecento dette una nuova scossa innovativa in questo ambito facendo convergere tutti i precedenti contributi verso un’ ottica multipersonale dei disturbi che quindi sarebbe stato opportuno affrontare in un setting gruppale.
Foulkes, considerava il gruppo come una dimensione spazio-tempo nella quale gli individui mettevano in atto schemi comunicativi appresi in altri gruppi e quindi questi gruppi erano solo uno dei tanti nodi di una grande rete con origine interpersonale ( la rete di tutti i processi mentali individuali viene chiamata “matrice”) (Di Maria, Formica, 2009).

Proprio per la sua caratteristica di essere formato da soggetti facenti parte anche di altri gruppi esterni che influenzano l’andamento delle dinamiche interne, il gruppo in senso clinico ha una capacità di polarizzazione tale da poter scindere nei suoi elementi costitutivi ogni nucleo emotivo che poi saranno assunti e rappresentati da membri diversi del gruppo. La reazione totale risulta dalla combinazione di queste risposte parziali (Rugi, Gaburri, 1998).

In Italia lo sviluppo di questi concetti avvenne soprattutto per mano di Gaburri e Corrao oltre a Bauleo che nella seconda metà del novecento si occupò di importare e mantenere vivo nella nostra nazione l’interesse per il gruppi operativi.
Corrao, sulla scia delle teorizzazioni bioniane vedeva nel gruppo a funzione analitica le condizioni per osservare l’emergenza, il dispiegamento e lo sviluppo di un’attività mentale di gruppo che consisteva nello scambio continuo di pensieri, di emozioni, di affetti, di fantasie, di memorie, di sogni, e di sensazioni corporee.
Il gruppo è quello spazio/tempo in cui le delimitazioni individuali si attenuano, i confini corporei si sfumano, lo stato di coscienza si indebolisce, sino a raggiungere livelli di “trance” leggera che facilita il rispecchiamento reciproco negli altri e viceversa. L’esperienza di comunanza in gruppo è specificamente legata al fatto che l’individualità delle persone a poco a poco si dissolve e quindi emerge l’insiemità in gruppo in cui non è tanto interessante indagare l’oggetto definito, ma la relazione tra i vari oggetti o la funzione di relazione che mette insieme pensieri ed emozioni dei vari individui (Corrao, 1998, p. 196-197).

Da questo si può inferire che il piccolo gruppo a finalità analitica può essere visto come un microcosmo, un micromondo che è sia materiale che mentale, uno spazio in cui poter pensare insieme, poter narrare di sé in gruppo e nel gruppo e tutto questo apre ad una molteplicità di sguardi interni ed esterni vertiginosa (Corrao, 1998).
In questo modo, secondo Gaburri, si costituiscono i pensieri nuovi che diventano i protagonisti della costellazione onirica prodotta dal sogno risognato nel gruppo in cui tramite la narrazione si dà senso all’esperienza in atto e si mantiene desta quell’ attenzione che promuove lo sviluppo dei nessi tra le parti del gruppo che avviene attraverso l’ interazione affettiva . Nella dialettica individuo-gruppo, infatti, l’altro si costituisce come oggetto di investimento affettivo ambivalente ed allo stesso tempo ogni soggetto ha l’opportunità di ritrovare i nessi con parti del Sé non elaborate ma incarnate da altri membri del gruppo.

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