Psicologia economica: una definizione

Di Ilaria Polidori

Questo lavoro si propone di essere una ricerca e una riflessione sul complesso rapporto fra scienza economica e scienza psicologica; posto che la prima, nella sua accezione più classica è essenzialmente intesa come scienza delle scelte razionali (Robbins, 1935) Se si prende per buona questa definizione, si comprende come le scienze cognitive non possono non avere un ruolo decisivo, nell’ambito di un modello economico che si proponga di prevedere efficacemente le scelte economiche reali dei singoli agenti. Ed è proprio la questione delle scelte degli agenti economici che ci porta ineluttabilmente al cuore del rapporto fra psicologia ed economia (o almeno quella parte di economia che studia le scelte individuali). Uno dei punti nodali di tale rapporto è costituito certamente dalla decisione, intesa come l’esecuzione intenzionale di un’azione secondo un piano, il che, se costituisce oggetto specifico di investigazione della scienza cognitiva (Bower, 1983), ciò nondimeno rileva anche nell’ambito dell’analisi economica delle scelte (Grandmont, 1982). Ma fino a non molto tempo fa, la disciplina delle scelte economiche era completamente scevra da qualunque tipo divalutazione psicologica relativa al processo decisionale dell’agente economico; quest’ultimo incarnante solo ed esclusivamente il prototipo più perfetto di Homo Oeconomicus: individuo in grado di conoscere tutte le alternative a sua disposizione, di scegliere coerentemente e in modo da massimizzare sempre la sua utilità.

E’ chiaro che una siffatta visione delle cose non è rinvenibile nella realtà: essa altro non è che una semplificazione, come del resto lo sono tutti i modelli. Ma quello su cui qui si tenta una riflessione è la posizione di chi, come Simon,(4) [1]afferma “…la decisione ottimale nel modello semplificato sarà raramente ottimale anche nel mondo reale” (Simon, 1981). Senza volerci addentrare in una discussione – che ci porterebbe assai lontano – circa la funzione e l’utilità dei modelli, quello che possiamo qui dire è che in essi senz’altro mancano tutta una serie di variabili, essenzialmente di tipo psicologico-cognitivo, in grado di determinare le decisioni economiche. E’ solo accettando l’irrompere delle scienze cognitive nell’ambito della scienza economica, che questa può trasformarsi da scienza delle scelte razionali in una più verosimile teoria del comportamento economico (Behavioral Economics).

Concetto centrale nell’ambito di una visione cognitivista della teoria economica e in grado di fungere da trait d’union tra scienza economica e scienza psicologica è il concetto di razionalità limitata, da intendersi come l’alternativa più attendibile all’eccessivo razionalismo della massimizzazione dell’utilità tanto palesemente inadeguato a descrivere situazioni aderenti alla realtà concreta.

L’espressione “razionalità limitata” si usa per designare una scelta razionale che prende in considerazione i limiti cognitivi del soggetto decisionale – limiti nella conoscenza e nelle capacità di calcolo. Conseguenza più diretta di questa visione delle cose, è l’abbandono delle assunzioni che sono alla base della teoria della scelta economica e che postulano, in sostanza, che le scelte vengano compiute:

a) tra una serie data di alternative

b) con una distribuzione delle probabilità degli esiti, conosciuta

c) in modo tale da massimizzare il valore atteso della

funzione di utilità data (Savage, 1954).

Nell’approccio comportamentista invece, i soggetti (come accade nella realtà) non sanno nulla delle alternative a loro disposizione, né delle probabilità associate agli esiti delle loro azioni: essi si avvalgono pertanto di processi di risoluzione dei problemi (problem solving) che utilizzano per scegliere l’azione adeguata al fine che intendono perseguire e il risultato di questo processo sarà una strategia in grado di trovare soluzioni che non siano ottime, ma semplicemente soddisfacenti.

Le teorie della razionalità limitata sono pertanto delle teorie sul processo decisionale e di scelta che ipotizzano che il soggetto di decisione desidera conseguire degli scopi e a tal fine fa uso al meglio delle proprie capacità intellettuali. L’obiettivo di queste teorie è senz’altro ambizioso: si tratta del tentativo di cogliere il reale processo decisionale e la portata della decisione finale.

Ed è a questo punto che se si vogliono creare le basi di un’economia le cui previsioni “a tavolino” non siano destinate a fallire inesorabilmente nel duro impatto con la realtà, è necessario tener conto della ricerca empirica sulle capacità e i limiti della mente umana; necessaria quest’ultima, per sostituire il mitico “Uomo Economico” con una persona in grado di comportarsi realisticamente.

Le principali divergenze fra economia e psicologia, riguardano infatti il terreno metodologico. La psicologia tradizionalmente fonda il proprio metodo d’indagine sulla raccolta dei dati empirici dai quali trarre generalizzazioni; l’economia ha sempre opposto resistenza a questo modo di procedere.

Illuminante a questo riguardo Simon, il quale in un’intervista (7) [2]afferma “Esiste molta resistenza tra gli economisti quando si tratta di uscire e osservare il mondo finché non si ha una teoria su di esso”. E con questa semplice frase coglie in pieno quella che è la difficoltà vera della mainstream economica: il punto principale non è che in economia non esista una ricerca empirica o un’attività sperimentale, anzi in questi ultimi anni essa ribolle di un fervore nuovo e incessante (come del resto testimonia il Premio Nobel assegnato recentemente a V. Smith proprio per i suoi contributi in questo campo); quel che vuol dirsi è che l’analisi empirica degli economisti continua ad utilizzare e ad essere guidata dalla teoria, anziché lasciarsi guidare dall’osservazione del mondo reale per dedurne delle conseguenze (in termini di ipotesi, modelli e teorie).

Convinzione profonda dei comportamentisti è che “gran parte della scienza coronata dal successo sia stata sviluppata osservando il mondo, rimanendone sconcertati, ottenendo dei dati e poi sviluppando e verificando la teoria”, come si leggenell’intervista già citata fatta a Simon.

Ma quell’intervista fu fatta nel 1986.

Per fortuna più di qualcosa si è mosso negli ultimi anni come ce se ne può rendere conto leggendo un articolo apparso appena 10 anni più tardi sul JEL, a firma di John Conlisk (1996). L’articolo è una rassegna di ben 23 pagine contenenti tutti i vari tentativi fatti di incorporare la razionalità limitata nei modelli economici e fra le ragioni prime che hanno indotto questo risultato, Conlisk cita: “…there is abundant empirical evidence that it is important…”. Ma Conlisk non è l’unico a pensarla così. Appena qualche anno dopo Geoge Akerlof (2002), oltre a condividere le posizioni di Conlisk si spinge oltre: egli giunge a postulare la necessità di incorporare comportamenti reali anche nei modelli macroeconomici.

Si sta sicuramente marciando verso una nuova frontiera per l’economia e i riconoscimenti cominciano ad arrivare: quando ho iniziato questo lavoro, all’incirca un anno fa, per quanto molto affascinata dagli esperimenti di Tversky e Kahneman, nulla lasciava presagire che pochi mesi dopo, quest’ultimo avrebbe ottenuto il riconoscimento dall’Accademia di Svezia per i suoi contributi in economia.

È’ sicuramente il segno che qualcosa sta cambiando.

Chiudo la presentazione di questo lavoro illustrandone la struttura.

All’inizio ho posto un capitolo introduttivo, che ha lo scopo di inserire il lettore nell’argomento, presentandogli quelli che sono i problemi e gli aspetti principali di questa “new-born discipline”, anche attraverso un breve excursus storico che illustra le principali tappe attraverso le quali l’economia è giunta al punto in cui è oggi.

Il capitolo primo ha scopo esclusivamente didattico e illustrativo nell’ambito dell’economia dell’intero lavoro. Essendo quello di utilità attesa, il modello utilizzato dall’economia ortodossa per individuare quali debbano essere le scelte da effettuare in condizioni di incertezza da parte di un individuo supposto razionale, ho ritenuto opportuno descriverlo brevemente per evitare continue esplicazioni o richiami, che avrebbero reso lo scritto poco fluido.

Il capitolo secondo è quello centrale e più importante. In esso viene trattata la tematica della razionalità limitata, vengono illustrate teorie alternative come quella del “Prospetto” o del “Regret”, viene considerata la “teoria dei giochi” nel suo rapporto con la limitatezza della razionalità dei giocatori.

Il terzo capitolo rende conto dei processi decisionali che guidano gli individui nelle loro scelte e degli errori di valutazione in cui possono incorrere utilizzando “scorciatoie mentali”.

L’ultimo capitolo è dedicato a due contributi, l’uno strettamente economico, l’altro un po’ meno, che in qualche modo hanno cercato di elaborare e sviluppare le esigenze di stampo comportamentista messe in luce a partire da Simon, arrivando finanche ad estremizzare oltremodo quelle istanze (con l’approccio neurobiologico).

Ho poi posto in fondo alla tesi un’appendice, che costituisce forse la parte più originale di tutta l’opera: è una sezione di taglio più pratico, in cui analizzo il comportamento di un campione di consumatori posti di fronte ad una scelta di tipo economico, che essi non riescono evidentemente a valutare in modo corretto.

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[1] Herbert Simon vinse il premio Nobel nel 1978 per i suoi contributi originali, e allora assolutamente rivoluzionari, nell’ambito della scienza economica.

[2] Intervista del 17/09/1986 fatta da Richard D. Bartel, redattore di “Challenge”.

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