meccanismi di difesa nel trauma

Meccanismi di difesa nel trauma: dissociazione ed alessitimia

Ognuno di noi ha dei propri meccanismi di difesa di fronte al trauma. Della loro importanza ne parlava addirittura Freud. Alcuni di questi sono più comuni e si chiamano dissociazione ed alessitimia. Questo articolo di Greta Manoni ti aiuta a riconoscere i meccanismi di difesa nel trauma.

Le reazioni ad un trauma sono diverse in ogni persona. I meccanismi di difesa spiegati.

Le reazioni psicologiche ad un evento traumatico generalmente non diventano problemi cronici. La maggioranza delle persone si riprende pienamente in un arco di tempo compreso tra i 6 e i 16 mesi, attuando qualche tipo di meccanismo psicologico implicito per difendersi dal trauma.

I meccanismi di difesa sono meccanismi che svolgono normalmente un ruolo adattivo.

Tendono a mantenere un certo equilibrio psicologico e sono utilizzati inconsapevolmente dalle persone quando i normali processi di problem solving sembrano non essere efficaci. Il loro obiettivo è quello di modificare la rappresentazione della realtà per renderla meno dolorosa.

Tuttavia, se vengono utilizzati in modo incondizionato, non rappresentano più risposte adattive adeguate al contesto ma diventano manifestazioni patologiche. Il trauma psicologico si manifesta infatti quando l’attività mentale dell’individuo è negativamente influenzata dall’esperienza di pericolo: si tratta quindi di una risposta disadattiva all’esposizione al pericolo.

La difficoltà di mentalizzazione è un elemento del trauma patologico

La presenza di sintomi post-traumatici rivela una difficoltà a mentalizzare le esperienze e a dare un significato evolutivo agli eventi di vita. La mentalizzazione è stata definita da Bateman e Fonagy (2004) come il «processo mentale attraverso cui un individuo interpreta, implicitamente o esplicitamente, le azioni proprie o degli altri come aventi un significato sulla base di stati mentali intenzionali (desideri, bisogni, sentimenti, credenze e motivazioni personali)».

Presupposto di questo processo è la capacità di rappresentare sé e gli altri in termini di stati mentali intenzionali, cioè di elementi psicologici (come desideri, sentimenti, aspettative o convinzioni) che sono alla base del comportamento e lo motivano.

Il processo di mentalizzazione è quindi caratterizzato da due aspetti: dapprima la capacità di percepire gli stati mentali propri (componente autoriflessiva) e altrui (componente interpersonale), e in seguito quella di interpretare il comportamento sulla base di stati mentali intenzionali. In seguito a queste capacità le azioni possono essere interpretate come conseguenti a stati mentali e assumere un significato psicologico.

La differenza nella definizione di mentalizzazione esplicita ed implicita

Si distinguono inoltre una mentalizzazione esplicita e una implicita (Allen, 2006). La prima corrisponde al pensare e parlare degli stati mentali propri e altrui, è conscia, legata al linguaggio verbale e tende ad assumere il carattere di una narrazione.

La mentalizzazione implicita, al contrario, è una mentalizzazione intuitiva, procedurale, automatica e non conscia, maggiormente legata al comportamento non verbale. Assumere un atteggiamento psicologico mentalizzante costituisce un notevole vantaggio in termini evoluzionistici, in quanto permette di comprendere meglio le proprie reazioni e andare oltre le apparenze nel valutare il comportamento degli altri, interpretando con maggiore successo le loro intenzioni.

Mentalizzare non solo permette l’automonitoraggio (il riflettere sul proprio pensiero e sul proprio comportamento) e l’esperienza di self-agency (il riconoscersi come soggetto responsabile e protagonista delle proprie azioni), ma permette anche la regolazione e il controllo delle emozioni e degli impulsi (compresi gli stati somatici ad essi correlati); risultando così fondamentale per una valida regolazione psicosomatica e un’adeguata gestione dello stress (Baldoni, 2010).

Scarsa regolazione emotiva è elemento del trauma patologico

Una difficoltà nell’elaborazione degli eventi dolorosi è spesso accompagnata dall’incapacità di autoregolare gli stati affettivi. Mentalizzare le proprie emozioni infatti non significa soltanto avere chiarezza della propria esperienza, ma anche sentire l’emozione quando viene vissuta, grazie all’integrazione tra mente e corpo.

Alessitimia come meccanismo di difesa al trauma psicologico

Un deficit di questa capacità di integrazione tra i fattori cognitivi e quelli emotivi è ciò che viene chiamato alessitimia. Questo termine, coniato nel 1973 da Sifneos, tradotto letteralmente significa “emozioni senza parole” o “mancanza di parole per le emozioni” e indica una sorta di analfabetismo emozionale.

Più precisamente delinea una condizione di ridotta consapevolezza emotiva che comporta l’incapacità sia di riconoscere sia di descrivere verbalmente i propri stati emotivi e quelli altrui. Oggi abbiamo un sostanziale consenso in letteratura sulla definizione di alessitimia: questa consiste nella difficoltà di identificare i sentimenti e di distinguerli dalle sensazioni somatiche; e nella difficoltà a descrivere e comunicare emozioni e sentimenti alle altre persone.

Le persone alessitimiche non riescono infatti ad usare le persone come fonti di conforto, di tranquillità, di feedback, di aiuto nella regolazione dello stress. Secondo alcuni autori l’alessitimia non dovrebbe essere considerata necessariamente una condizione patologica, quanto piuttosto un tratto di personalità che predisporrebbe alla somatizzazione.

L’alessitimia dopo un intervento chirurgico

Questa condizione può tuttavia emergere come fenomeno secondario, ovvero come stato reattivo in conseguenza di gravi traumi o di malattie fortemente invalidanti o nelle quali c’è pericolo di vita (cancro, dialisi, trapianto). In momenti particolarmente critici dell’esistenza, “l’anestesia emozionale” sembra avere finalità adattive, rappresenterebbe cioè un meccanismo di difesa verso la propria realtà interiore fonte di sofferenza e di grosso scompenso.

I meccanismi di difesa descritti possono portare alla dissociazione

La mancanza di adeguate capacità di mentalizzazione e di autoregolazione delle emozioni è stata associata in letteratura al meccanismo difensivo della dissociazione, che il soggetto attua quando isola dalla coscienza l’esperienza traumatica ed i vissuti ad essa legati, dissociandola.

A cosa serve la dissociazione psicologica

La dissociazione permette di regolare stati emotivi troppo intensi e insostenibili per il soggetto, ponendosi come rifugio mentale in cui proteggere il proprio Sé da realtà eccessivamente dolorose, rinviandone l’elaborazione ad un tempo indefinito in cui quella stessa esperienza potrà essere analizzata senza rimanerne sopraffatti.                                     (Il trauma psicologico, nuove frontiere di ricerca; 2018).

La dissociazione come meccanismo di difesa nel trauma: livelli

Questo meccanismo, negando l’accesso alla consapevolezza, protegge la sopravvivenza dell’individuo. Tuttavia esistono diverse gradazioni di dissociazione, dal semplice fantasticare ad occhi aperti alla profonda perdita di coscienza. Esempi comuni di dissociazione di fronte alla minaccia sono stati descritti nell’ambito delle cosiddette “nevrosi di guerra”.

Un soldato nel mezzo del combattimento può impegnarsi completamente, e soltanto dopo (a lotta terminata) avvertire il suo cuore in palpitazione o la sua ferita sanguinare.

È questa capacità di dissociarsi che può mantenere in vita i combattenti.

Cosa succede nel cervello quando viviamo un evento traumatico

I correlati neurobiologici della risposta d’allarme-ipervigilanza (descritti nel paragrafo precedente) e della risposta dissociativa sono sicuramente distinti.

La neurobiologia della risposta d’allarme e d’ ipervigilanza coinvolge i sistemi ad origine tronco-encefalica. Per quanto concerne invece la neurobiologia del continuum dissociativo, è possibile ipotizzare la presenza di due tipologie di dissociazione, ovvero quelle che coinvolgono il dominio psichico e quelle che coinvolgono il dominio somatico. L’uso della dissociazione infatti può far sì che contenuti emotivi non elaborati vengano vissuti unicamente sul corpo, attraverso una sintomatologia somatica. Sono presenti, nei suddetti disturbi, iperattivazioni sovrapponibili riguardanti la corteccia prefrontale e la corteccia cingolata anteriore, che esplicano la loro azione inibitoria nei confronti di strutture corticali o limbiche. A tali disturbi spesso si accompagna il calo della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, talora sino all’estrema conseguenza dello svenimento, nonostante l’aumento dell’adrenalina in circolo.

Chi è più predisposto alla dissociazione nel trauma?

Ma quali sono i fattori che predispongono gli individui ad adottare meccanismi di difesa nel trauma di tipo dissociativo? Più giovane è l’individuo, maggiore è la probabilità che possa utilizzare adattamenti di questo tipo, al posto della risposta di allarme-vigilanza e dei suoi comportamenti di attacco-fuga. Anche la natura del trauma sembra essere importante. Più l’individuo si sente impotente ed inerme, tanto più è probabile che utilizzi risposte dissociative. Inoltre quando nell’esperienza traumatica è presente o prevalente il dolore fisico, si ha un’attivazione dei sistemi oppioidi endogeni che facilitano l’adozione di risposte dissociative. Infine, la letteratura mostra una chiara differenza tra i sessi.

Le donne sono più predisposte alla dissociazione nel trauma

Le donne, infatti, utilizzano adattamenti dissociativi più frequentemente degli uomini. Sono molte quindi le definizioni di dissociazione più comuni. Quella che più mi sembra chiara, in conclusione, è data da Sullivan (1940), che l’ha definita come un’«operazione di sicurezza». Questa sorta di “uscita d’emergenza” permette di ripararsi dal dolore, ma ogni volta che si attraversa quella porta ci si affaccia su uno scenario diverso, in un graduale indebolimento del Sé. Il trauma apre una ferita che ha profondi effetti sulla mente, sul corpo e sui rapporti interpersonali.

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